Cultura, cinema e arte

“H2No” – L’inconscio dell’acqua – Recensione di C. Buoncristiani

Il corto, nato dalla sceneggiatura premiata con la menzione speciale del Premio Roberto Rossellini alla Festa del Cinema di Roma, evoca l’intima connessione dell’uomo con il divenire della natura. Ma anche la minaccia alla sopravvivenza causata da un consumo senza limiti.


“H2No” – L’inconscio dell’acqua –  Recensione di C. Buoncristiani

Water of love deep in the ground

But ain’t no water here to be found

Somy baby when the river runs free

It’s gonna carry that water of love to me

 “Water of love” - Dire Straits

 

 

“Dalla terra nasce l’acqua, dall’acqua nasce l’anima…”. Non poteva che essere Eraclito, il più enigmatico dei filosofi greci, ad accompagnare “H2No”, sceneggiatura  di Virginia Cerrone, premiata alla Festa del Cinema di Roma con la menzione speciale del  XIV Premio Nazionale Roberto Rossellini. Il cortometraggio per la regia di Mauro Conciatori si sviluppa intorno alla relazione dell’umano con l’elemento dell’acqua. Del fluire la regia mantiene ritmi e forme, scegliendo come location il Comune di Calvi dell'Umbria, un luogo incantato che vive di acque dolci, ma nella strutturale mancanza di un affaccio sul mare.

Come recuperare ciò che l’uomo ha perduto, per l’eccesso irresponsabile di civilizzazione forzata? Come invertire le conseguenze di un consumo smodato e senza limiti, dell’acqua così come di ogni altra risorsa? Su questo si interroga il film, mentre scorrono immagini di una natura sontuosa e sovrana, bella e fragile, calda e purissima.

In H2No, la narrazione si fa poetica. La accompagna l’intensità della voice over recitante di Maria Libera Ranaudo. Il corto ritrae ampie distese verdi e corsi d’acqua tra i quali si muovono tre donne.

E’ la fatica di portare l’acqua a determinare l’incedere di queste donne. Un femminile che “reca l’anfora” diventa la cifra della fatica “humana”. Un lavoro che è garante laico del contatto con l’inconscio e con qualcosa di sacro. Qualcosa che ha a che fare con l’intima connessione con una dimensione “ulteriore”.

Qui acqua, donna, vita, futuro sono metafore che si rifrangono una nell’altra. Pensiero fluido ed epifanico, al punto da veicolare un messaggio eco-etico-filosofico.

La narrazione procede secondo le forme di questa oscillazione, dove l’interno e l’esterno riverberano l’universale fluire dell’esistenza: panta rei, ancora Eraclito, così presente nel corto. Perché tutto davvero scorre in ciò che è vivo: “È fiume, è mare, è lago, stagno, ghiaccio e quant’altro …. è dolce, salata, salmastra, è luogo presso cui ci si ferma e su cui si viaggia, è piacere e paura, nemica ed amica, è confine ed infinito, è cambiamento e immutabilità”.

Eppure, è sempre acqua, la stessa acqua, a riflettere un presente oscuro, coperto dall’ombra di un consumo estremo, che minaccia la sopravvivenza del genere umano.

Le tre donne, così diverse una dall’altra, evocano un mondo ancestrale e contemporaneo, sognante e materico. Siamo in una temporalità circolare scandita: nascita, morte e resurrezione. Una dimensione che sempre “esubera” il tempo cronologico.

Lo spettatore è immerso in uno scenario di immagini che non seguono una sintassi cinematografica classica. Tutto viene stravolto, destrutturato fuori dai limiti delle regole della scrittura filmica, per essere ricomposto a nuova “vita”. Forse perché è proprio il divenire, o meglio ancora il “divenire folle” per dirla con Gilles Deleuze, il vero protagonista del film.

Come notava anche Jung, “l'acqua è il simbolo più corrente dell’inconscio (…): spirito divenuto inconscio…”. Spirito che percorre trasversalmente la storia di H2No. Passaggi dove si incontrano psiche e sostanza terrena. Dove il terreno fertile della campagna irrorato dal liquido essenziale è nutrimento primario, humus, da cui humano, ovvero umanità. Tutto viene dalla terra e dal suo nutrimento. 

E così ecco che arrivano suggestioni dal Tao, perché “la bontà suprema è come l'acqua”, che non “resiste”. Ma anzi reca profitto (…) senza lottare. Essa resta nel posto (il più basso) che ogni uomo detesta. Ecco perché è molto vicina alla via…”. Le parole Tzu, sono seguite da quelle di Hesse e poi di Leonardo Da Vinci fino a Margaret Atwood. Discorsi che sembrano versarsi nelle strade perpetue del paese di Calvi e sfociare nei corsi d’acqua di Rasiglia e del Menotre.

C’è un affresco commosso dell’Umbria in H2No che ha sì molti corsi d’acqua, ma alla quale sono negate le “perigliose sponde marine”: qui non ci sono affacci sul Mediterraneo e gli echi dei viaggi di Ulisse incidono come frammenti lontani. 

Le tante citazioni sono raggianti, ma poi improvvisamente anche cupe. A tratti si aprono squarci su un destino umano privo di cultura della vita.

Non dà risposte questo cortometraggio, ma pone interrogativi e innesca dubbi. Mentre l’acqua continua a scorrere, nonostante tutto, perché è l’elemento da cui tutto ebbe origine.

L’uomo contemporaneo vive nella sua dissociazione, senza la coscienza di essere parte di un sistema più ampio. L’arroganza, l’indifferenza è esemplificata, nel film, dall’unica parola detta live: “Ciao”. Una parola rivolta ad un cellulare, non a persona di carne, ossa e acqua, ma un dispositivo: di metallo, silicio e rame, dove codici binari dispongono la comunicazione secondo algoritmi prestabiliti. “Ciao” diventa allora una parola gettata, che va al nulla, che non ha importanza ma che cerca ascolto.

Tutto ha un fine e una fine, ma anche un nuovo inizio. E forse l’epilogo del film lancia un segnale di speranza. Perché “l’acqua” si abbandona in un abbraccio liberatorio, baciata da un sole al tramonto, forse indizio di una nuova era che sta per arrivare. E con lei una nuova vita fa capolino in un mondo nuovo. Così l’abbraccio finale è quello di una giovane madre che accoglie l’antica madre, fatta figlia. Perché, per dirla con Jung, “l'aspetto materno dell'acqua coincide con la natura dell'inconscio”, in quanto matrice fluida e mai veramente segmentabile della coscienza.

 

 

 



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