Attualità della psiche

Psicoanalisi e diritti umani: la questione Israelo-Palestinese Incontro tra Giuseppe Messina e Dario Rossi D’Ambrosio


Psicoanalisi e diritti umani: la questione Israelo-Palestinese Incontro tra Giuseppe Messina e Dario Rossi D’Ambrosio

Questa intervista vuole cercare di costruire un dialogo che esplori la relazione tra l’orrore del passato e il suo ritorno nel presente: la proposta sul tema si snoda attorno all’amicizia decennale tra uno psicoanalista, l’intervistatore, Giuseppe Messina, e un esperto di diritti umani, l’intervistato, Dario Rossi D’Ambrosio.

Due parole su di loro. 
Messina è uno psicoterapeuta formato in Arpad (Associazione Romana per la Psicoterapia dell’Adolescenza) e dunque da sempre interessato alla questione adolescente, non tanto intesa come epoca della vita ma come funzionamento mentale: elemento centrale anche nel suo lavoro di analista di adulti e di psicologo scolastico. Rossi D’Ambrosio è un esperto di diritti umani formato, da ultimo, alla SOAS (School of Oriental and African Studies) di Londra che ha lavorato per anni in Palestina e in Israele, in diverse organizzazioni, governative e non governative, appassionato alla questione israelo-palestinese, e attualmente operativo in Europa nell’ambito delle migrazioni.
I presupposti teorici. Questa operazione psichica nasce da una pluralità di premesse, ancorate al discorso freudiano ed evolute da questo, che vogliamo esplicitare: 1) la relazione umana è alla base della costruzione dell’apparato psichico, 2) all’interno delle relazioni umane osserviamo la dinamica della rimozione e del ritorno del rimosso, 3) la psiche individuale è da sempre, anche, sociale e collettiva, 4) il trauma è consustanziale alla dimensione umana così come il lavoro del lutto, 5) è solo nell’incontro con un altro che la partita della storia personale può essere rilanciata ed essere sottoposta a una nuova trascrizione.
Questi i motivi per cui pensiamo che dalla natura dialogica di un’intervista possa emergere qualcosa di interessante rispetto al tema in oggetto: il tentativo è quello di riprodurre, attraverso la struttura stessa del dialogo, l’emergenza dell’apparato psichico. Tanto del ritorno del rimosso quanto del necessario lavoro in doppio per poterlo pensare e sottoporre ad elaborazione.

Giuseppe: Come è nata questa idea di fare un’intervista? Personalmente mi sembra che si sia mosso fra di noi, a partire da istanze diverse, il desiderio di incontro attorno al tema viscerale del dolore, dolore fisico, psichico, individuale, sociale, probabilmente persino politico, ma soprattutto del ritorno, forse evitabile, di quel dolore?
Dario: Mettiamo già, per così dire, tanta carne al fuoco e rischiamo di creare fumo negli occhi sin dal principio. Sicuramente il tema del dolore fisico e psichico, individuale, collettivo e sociale, direi anche identitario, è una delle possibili prospettive per spiegare i movimenti che sottendono al conflitto palestino-israeliano o israelo-palestinese. È sempre difficile parlare di questioni storiche e politiche complesse, senza scadere in spiegazioni semplicistiche e scorciatoie cognitive. Ci tengo a precisare sin dall’inizio che per me l’obiettivo di questo dialogo è esplorare alcuni ambiti più nascosti e meno dibattuti. Nel mio vocabolario non la chiamerei neanche “intervista”, perché’ non ho risposte, anzi probabilmente rilancerò con dubbi e questioni alle domande poste, per riflettere insieme. L’obiettivo è delineare degli spunti di riflessione, cercando di evitare spiegazioni nette e certe o di schierarsi. Potremmo cominciare a disquisire di norme, sentenze, accordi, dando ragione all’uno o all’altro. Possiamo discutere se si tratti di discriminazione, a quale livello, se sia
opportuno parlare di apartheid, se costituisca genocidio e via dicendo. A livello giuridico e storico questo è senza dubbio importante, ma in questo dialogo non andiamo in quella direzione. Cerchiamo di andare oltre la tipica dicotomia del conflitto di una parte contrapposta a un’altra. Ciò che non abbiamo detto nella prima domanda, ma che è sottinteso mi pare, è il fatto che il dolore nasca principalmente da violenza e da violazioni. Violazione nel senso di sorpassare i limiti, i limiti dell’integrità fisica, psichica e i limiti di ciò che è lecito, nel senso di accettabile in una società, che poi si trasforma in norme prescrittive. Il movimento che qui avviene, a mio parere, è da un lato psichico: cosa possiamo chiedere a chi ha subito violenza e violazione e quindi prova dolore? Cosa possiamo aspettarci da una persona e quindi anche da una collettività che ha subito violenza e violazione? Non è una domanda retorica né un tentativo di giustificazione, bensì nasce da una riflessione sulle reazioni. Se siamo consumati dal dolore, abbiamo spazio per il dolore altrui? Penso che non si possa dare una risposta univoca a questa domanda, perché dipende dal se e come viene affrontato e metabolizzato il dolore e il lutto che ne deriva. Allora, con una domanda provocatoria: cosa possiamo aspettarci da una collettività che ha subito l’Olocausto, e cosa possiamo aspettarci da una collettività che ha subito e continua a subire la Nakba? Il punto non è dare una risposta facile e dire “niente, non ci possiamo aspettare molto, in effetti…” ma è più che altro cercare di capire la storia e l’identità delle comunità delle quali parliamo. Un modo di leggerle potrebbe essere la considerazione che sono comunità che hanno in comune al loro interno e poi di riflesso l’una con l’altra il dolore e il lutto collettivo, comunitario, sociale. In questa progressione da collettivo a comunitario a sociale, la tragedia, la catastrofe, il dolore, il lutto attraversano e creano l'identità del gruppo. Il limite fra dentro e fuori il gruppo, sia esso ebreo israeliano o arabo palestinese, è per certi aspetti la comunanza del dolore. Essere parte del gruppo in quanto si ha nella propria genesi una storia di persecuzione subita. Per seguire il flusso, mi viene da riprendere il carteggio fra Einstein e Freud proprio sul tema della guerra, in particolare un passaggio che secondo me ci offre molto: “Partendo dalla nostra dottrina mitologica delle pulsioni, giungiamo facilmente a una formula per definire le vie indirette di lotta alla guerra. Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra. Questi legami possono essere di due tipi. In primo luogo relazioni che pur essendo prive di meta sessuale assomiglino a quelle che si hanno con un oggetto d’amore. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “ama il prossimo tuo come te stesso”. Ora, questo è un precetto facile da esigere, ma difficile da attuare. L’altro tipo di legame emotivo è quello per identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse riposa in buona parte l’assetto della società umana.”
Giuseppe: Mi sembra che i temi che poni siano enormi e difficilmente potremo trattarli in questo spazio, cerco di coglierne almeno qualcuno prima di passare alla questione successiva. Intanto brevemente sulla natura dell’intervista che non offre risposte, non posso che essere d’accordo, e in effetti, intervista è una italianizzazione del francese “entrevue” che indica un incontro rapido o uno scambio di sguardi: credo che questo ancoraggio al percettivo possa permetterci di andare progressivamente verso il simbolico. Sul carteggio tra Freud ed Einstein che citi puntualmente, vorrei sottolineare come Freud dica con forza che “tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra” e in questo senso si apre un enorme interrogativo, che potremmo forse trattare più avanti, sui legami emotivi, sull’amore, che nasce, se nasce, tra israeliani e palestinesi, sui matrimoni misti ad esempio: alla forza di Eros come antidoto allo strapotere di Thanatos. Sul dolore che deriva dalla violenza mi hai fatto pensare al celebre libro di Piera Aulagnier la violenza dell’interpretazione dove la tesi principale ha a che fare con l’idea che una certa misura di violenza, intesa come imposizione di significato da parte di un altro, è connaturata alla vicenda umana dell’infans, l’adulto lo nomina prima della nascita, lo desidera e rifiuta insieme, gli attribuisce qualità, gli attribuisce ed interpreta i suoi bisogni, e tuttavia, sottolinea Aulagnier, questo discorso “violento” dell’altro può essere più o meno rigido, più o meno invadente, lasciare spazio o meno all’infans: mi sembra che nel dolore di cui stiamo parlando la violenza è totale, c’è il tentativo di cancellazione non solo dello spazio dell’altro ma dell’altro stesso. A tale proposito ricordo la prima volta che siamo andati a Hebron insieme, lavoravi lì già da qualche anno, avevi organizzato una visita della città con un’attivista palestinese. Diverse le immagini forti che si sono impresse nella mia memoria, voglio però ricordarne una, che probabilmente condensa tutte le altre, per interrogarla insieme: una delle vie centrali della città vecchia con numerose porte segnate da una grande X bianca che segnava proprietà palestinesi evitte e chiuse. Da analista ricordo che la prima cosa che pensai è proprio il ritorno del rimosso, o forse dovrei dire non tanto ritorno del rimosso, che implica già un trattamento da parte dell’apparato psichico, ma l’irruzione del forcluso che ritorna nel reale, segni molto simili a quelli con cui venivano trattate le abitazioni degli ebrei nella Germania nazista. Perché? Qual è la tua esperienza sul campo?
Dario: Questo è certamente un terreno spinoso. Quello che mi sembra di aver osservato personalmente - in quanto tale molto soggettivo e aneddotico - è che si gioca uno zero sum game, in cui l’altro è il nemico punto e basta. Quindi io per proteggere me stesso e la mia comunità sono giustificato a fare di tutto, anche ciò che in una situazione normale è illecito. È il principio basilare che conosciamo tutti della legittima difesa. Se ho subito o sono minacciato da violenza, sono legittimato a usare la forza. Non a caso sentiamo continuamente invocare questo principio, addirittura in modo preventivo. Di solito si applica in modo autoreferenziale e in un clima di diffidenza e quindi, una volta utilizzata la forza, poi si entra in un ciclo di rappresaglie. Infatti, i coloni ebrei israeliani di Hebron citano sempre il massacro del 1929 perpetrato dagli arabi a danno degli ebrei, che, se la mia memoria è corretta, la nostra guida palestinese non citò. D’altro canto, ciò che non viene raccontato dagli ebrei israeliani è che la maggior parte degli aggrediti fu in realtà protetto dalle famiglie arabe della città e riuscì a salvarsi. Quello che ho potuto osservare è anche un rapporto con la verità tale per cui la menzogna o l’omissione al servizio della propria comunità è morale, invece il contrario spesso viene classificato come un tradimento della propria comunità. Faccio un inciso a proposito della negazione e della paura di tradire il proprio gruppo. Mi sembra ironico osservare che nella nostra conversazione, perlomeno implicitamente, l’Olocausto è stato fatto solo dai tedeschi, perché citiamo la Germania nazista, ma non citiamo l’Italia fascista. In qualche modo questo ci suggerisce che siamo tutti vittime di meccanismi simili. Riprendo il discorso: coloro che provano a scoprire e dire la verità e quindi necessariamente si assestano su delle posizioni sfumate - quindi anche di cooperazione col diverso, di  solidarietà - vengono tacciati di tradimento e spesso anche considerati illeciti non solo moralmente dalla propria comunità ma anche a livello giuridico dal sovrano. Questo accade attraverso il blocco del pensiero
critico, con la censura, ad esempio la censura militare in Israele, che si estende fino al blocco dell’ingresso dei media a Gaza e si delinea anche in persecuzioni sociali e legali contro individui e organizzazioni che si occupano di diritti umani e si dedicano alla solidarietà tra le due società civili. Dall’esterno è facile porsi in una posizione giudicante e avere un’opinione definita. Le sfumature, le riflessioni e la complessità non sono adatte ai social o al giornalismo rapido di oggi, e soprattutto richiedono tempo, energia, sforzo e, di fondo, non fanno comodo e non interessano a molti.
Tuttavia, vale la pena farsi una delle domande basilari alle quali occasionalmente ritorno quando sento che - di fronte alle atrocità israeliane (o palestinesi, anche se queste sono, per motivi strutturali, naturalmente più esigue in numero) - la mia parte giudicante sta per prendere il sopravvento: “Se fossi nato ebreo israeliano, dove sarei oggi? Cosa farei oggi? Come la penserei oggi?” e lo stesso “se fossi nato arabo-palestinese?”. Questa domanda ci pone a contatto con la complessità, con una domanda alla quale non è scontato rispondere. Ci pone di fronte allo sforzo di cercare di capire il diverso e il nemico, mettersi nei suoi panni, chiedersi cosa e come pensa, perché la pensa e agisce così. Naturalmente non è possibile fornire una risposta univoca, ma è necessario instillare il dubbio.
Per ritornare alla domanda, ti rispondo cercando di spiegare il fatto che la perdita della cittadinanza, la perdita della madrepatria, portano gli individui e il popolo alla pressoché impossibilità di agire politicamente (Arendt). Per gli ebrei israeliani, infatti, la creazione di Israele rappresenta ed è anche narrata collettivamente come liberazione e come la soluzione per ottenere finalmente una vera protezione e quindi libertà. Al di là della legittimità storica e politica di questa narrazione, una parte di me pensa: come dare loro torto, dopo l’Olocausto? Allo stesso tempo nella narrazione collettiva e attraverso un topos tipico dei processi coloniali, purtroppo, l’altro che vive nelle terre di conquista non esiste, oppure viene marginalizzato e ostracizzato come barbaro, straniero, incivile, terrorista e così via. Quindi si tende a una rimozione psichica originaria dell’altro, in questo caso l’arabo palestinese. In seguito, mettendo in pratica i pensieri, si traduce pressoche’ automaticamente in una rimozione fisica parziale (trasferimento ed espulsione) o totale (uccisione). E questo porta a una nuova catastrofe.
Ora, c'è un legame diretto fra le violenze subite e le violenze agite? Difficile dire con certezza perché sono processi complessi a livello individuale, figuriamoci a livello collettivo, ma le somiglianze dei movimenti psichici e delle azioni sociali fra quello che è stato il trattamento degli ebrei in Europa (e altrove) e quello che gli ebrei israeliani riservano agli arabi palestinesi, sembra simile in alcuni suoi aspetti fondamentali di discriminazione e violenza sistematica. E qui ritorniamo a un concetto semplice e paradossalmente banale, seppur profondo: la coazione a ripetere.
Giuseppe: La tua risposta è davvero ricca di stimoli per un analista a partire dallo scotoma che da entrambe le parti, israeliana o palestinese, avviene. Il fenomeno della cecità circoscritta a determinati elementi del reale o dell’evento, in favore della personale interpretazione dei fatti, se da una parte è connaturata ed insita nell’umano, nel funzionamento storicizzante dell’apparato psichico, basti pensare al ricordo di copertura di Freud, dall’altra, mi pare che segnali qui un’operazione aggiuntiva, che va oltre la costruzione/ricostruzione, ma che, forse, chiama in causa il meccanismo dell’allucinazione negativa di Green, il non vedere una porzione del reale con l’obiettivo di non sollecitare oltre l’apparato psichico: l’elemento colpito da allucinazione negativa è un elemento centrale. Colpisce in effetti proprio questo nella vicenda del massacro del 1929 ad Hebron a cui ti riferivi: se da un lato la guida palestinese non l’ha citato dall’altra gli ebrei israeliani non ricordano che molti di loro furono protetti da famiglie arabe-palestinesi: da entrambi le parti assistiamo ad un fenomeno di restrizione del reale, di trattamento del reale in funzione di una idea perfettamente coesa che non accetta sfumature - ragione o torto, amico o nemico. Questa operazione psichica mi sembra ai confini di una costruzione-ricostruzione e più vicina ad un’allucinazione negativa: in entrambi i casi l’elemento soggetto a questa fine sembra non visto ab-origine per il suo carattere di “troppo”. Chi evidentemente tenta il reintegro di questi elementi, israeliano o palestinese che sia, non può che essere visto come minaccia, non solo al gruppo, ma al funzionamento mentale del singolo. Mi è venuto anche in mente il bel libro di Stanley Cohen che mi regalasti anni fa States of Denial. Mi sembra di cogliere dalle tue parole che esiste una dimensione di diniego necessario del dolore, di respingimento di un troppo che resta ai margini, forse è quel resto che necessita di essere ancora preso in carico?
Dario: Il sottotitolo del libro è knowing about atrocities and suffering of others, perché è questo quello che provoca innumerevoli meccanismi di negazione ed evitamento individuale, sociale e politico. Si applica al senzatetto che vediamo tutti i giorni per strada, così come al migrante, all’arabo palestinese per gli ebrei israeliani e viceversa, nel momento in cui l’altro soffre e ha bisogno di aiuto. Cosa ce ne facciamo della sofferenza altrui quando ne veniamo a conoscenza? E cosa provoca in noi la conoscenza della sofferenza? La negazione è una reazione psichica, direi una difesa psichica. In base alla sua misura, penso che possa essere “sana” oppure “patologica”, questo è uno dei punti fondamentali nel lavoro di Cohen. Oltre ad afferire alla sfera psichica, la negazione gode di una sua organizzazione anche a livello sociale e politico.
Conoscere la sofferenza altrui diventa ancora più pesante quando chi la commette è un membro del proprio gruppo. Ad esempio, è difficile trovare famiglie palestinesi in cui nessuno dei suoi membri sia mai stato arrestato o imprigionato senza giusto processo. Gli israeliani, invece, tendono a non considerare questo aspetto, a non riconoscerlo e a ritenere che ogni arresto o uccisione sia giustificata, a sospettare e demonizzare qualsiasi palestinese che lotti per i propri diritti e la propria dignità, e che ogni forma di attivismo sia di per sé un reato. Sapere che il proprio gruppo, inclusi i propri cari, commettono atrocità comporterebbe mettere in dubbio l’innocenza non solo dei propri capi, ma anche dei propri padri, fratelli, zii e cugini. E quindi, le prove che vanno in una certa direzione vengono scartate come prodotti di propaganda del nemico a cui è vietato credere. Farsi carico della sofferenza in senso compiuto significherebbe prenderne parte e fare qualcosa al riguardo. Personalmente aggiungerei che bisognerebbe fare qualcosa di significativo e non accontentarsi che spetti a qualcun altro farlo, ma neanche fare qualcosa che riproponga gli schemi della violenza. Qui mi riferisco in particolare a espressioni violente ed estreme, che accadono
quotidianamente, come augurarsi la morte dell’altro, esultare quando l’altro muore o bruciare la sua bandiera. Fare qualcosa di efficace e che porti a un cambiamento, anche minimo, rispetto alle dinamiche di contrapposizione che ripetono la mimica della guerra.
Giuseppe: Credo, con Freud, che la negazione non sia esclusivamente una difesa psichica ma una funzione della psiche consustanziale all’umano e necessaria per il suo sviluppo, la possibilità di dire di no è precisamente la possibilità di mettere dei limiti alla violenza dell’altro, violenza qui intesa nel senso strutturale di Aulagnier, la possibilità di dire di no è un modo per ritagliarsi una forma all’interno dei sì dell’enunciato materno: credo quindi che non dovremmo demonizzare la negazione in toto ma piuttosto indagare la sua cronicizzazione davanti a determinati eventi. In altri termini ogni affermazione è per sua stessa essenza accompagnata da una negazione, un sì a qualcosa è anche un no a qualcos’altro. Potremmo utilizzare questo funzionamento normale per indagare quello, per così dire, patologico? Voglio dire davanti agli esempi che riporti e ai quali assistiamo ogni giorno quali esultare di fronte alla morte altrui, bruciare la bandiera o i simboli in generale, non possiamo forse cercare di capire cosa ha cronicizzato un funzionamento normale quale quello della negazione? Perché qui la negazione non si ferma al compito costruttivo di delimitare ma sfocia nel compito di distruggere? Mi sembra che continui, con Freud, a proporre l’idea che le relazioni umane sfumate di chi prova a transitare nel territorio altrui senza invaderlo possono essere l’antidoto necessario, puoi cercare di ampliare?
Dario: Parto da lontano riallacciandomi a quanto abbiamo discusso poco fa: la strada di Hebron dove i negozi e le case palestinesi sono chiuse si chiama Shuhada Street, che significa Via dei Martiri, e prendo spunto da questo per sottolineare la complessità delle sfumature e contrapposizioni che viviamo quando parliamo di Palestina e Israele. Ad esempio la questione dei cosiddetti martiri palestinesi che sfortunatamente vengono alla cronaca soltanto quando si vuole condannare attacchi violenti. Dico sfortunatamente perché’ è una riduzione del concetto e un taglio netto a una visione più sfumata e complessa del concetto di martirio. Mi spiego meglio: un martire per i palestinesi non è soltanto colui che muore in un attacco violento, è anche un innocente che muore sulla sua terra, è anche un operaio che muore sul posto di lavoro. È un concetto più ampio: è colui che muore nell’ambito dello svolgimento di un compito. E con questo cerco di toccare una questione spinosa, ma importante: da una certa prospettiva, per esempio, coloro che hanno
perpetrato gli attacchi del 7 ottobre, per alcuni sono degli eroi, per altri dei terroristi. Questo è un topos tipico delle guerre, per l’uno è una bestia, per l’altro è un partigiano che resiste all’ingiustizia. Purtroppo, per quanto possa essere difficile accettarlo, sono vere entrambe le affermazioni, perché da entrambe le parti si ha una visione parziale e netta. Infatti, non ci sono soltanto negazioni, ma vere e proprie bugie e fabbricazioni per giustificare e legittimare le proprie azioni o delegittimare l’altro. Non a caso le guerre sono accompagnate da campagne di informazione/disinformazione. Vorrei tornare su quanto abbiamo detto sopra rispetto alla negazione e all’eliminazione dell’altro. Quando sfocia nei comportamenti di cui abbiamo parlato, l’idea è genocidaria in sé nel senso che prevede l’eliminazione dell’altro e del suo popolo e della conquista del territorio attraverso questa eliminazione. E questo è vero sia per quanto riguarda il sionismo e le sue politiche sia per quanto riguarda i movimenti, gruppi, partiti e organizzazioni palestinesi che giustificano attacchi contro civili. Non è un caso che in entrambe le società ci sia una censura rispetto alle malefatte dei “propri”. Nella società israeliana non c’è educazione rispetto alla Nakba, che è l’altra faccia della creazione dello Stato di Israele, e nella società palestinese non si parla degli attacchi contro civili israeliani o occidentali, non solo in Israele ma anche in Europa negli anni ‘70 e ‘80, se non con una copertura di eroismo, resistenza e liberazione. Hai citato i matrimoni misti come simbolo di relazioni umane inevitabili per due (o più) popoli che vivono nello stesso posto. In un mondo ideale, questo è certo, tuttavia attualmente è molto difficile incontrare delle coppie miste. Certo, ho sempre pensato quelle unioni come una delle possibili chiavi che potrebbero portare progressivamente le due società ad unirsi. Purtroppo il basso tasso di
matrimoni misti dal punto di vista etnico e religioso in Israele è influenzato anche dall’assenza di una separazione tra religione e Stato in materia di diritto di famiglia. Attualmente non esistono procedure alternative o strumenti legali per celebrare matrimoni civili. Di conseguenza, le unioni interreligiose sono riconosciute legalmente solo nel caso in cui uno dei componenti della coppia si converta alla religione dell’altro. E qui torniamo alle dinamiche del tradimento della propria identità. Rispetto ai matrimoni misti, a mio parere, purtroppo siamo a uno stadio più embrionale perché’ non esistono le condizioni necessarie a livello sociale e istituzionale al momento. L’unica alternativa di base alla violenza strutturale e sistematica che si consuma ogni giorno e ormai da decenni su quella terra, non risiede né nell’affermazione di se stessi a scapito dell’altro, né nella negazione vera e propria dell’altro; risiede in un movimento disgiuntivo che scarta la dicotomia e cerca di abbracciare più prospettive e posizioni contemporaneamente. Questo è presente in esempi quali i movimenti della società civile di solidarietà contro il muro in cui si mobilitarono israeliani e internazionali insieme ai palestinesi, oppure i movimenti israeliani di solidarietà con la popolazione di Gaza. Esempi ce ne sono, anche se raramente vengono pubblicizzati e incoraggiati. Non vengono ripresi dai social o dai telegiornali, perché sono esempi marginali, sfumati e complessi, che soprattutto richiedono uno sforzo psichico non indifferente, perché’ non rispondono al bisogno dell’aggressività e dello scontro. Questi comportamenti contraddicono gli stereotipi, ci mettono nei panni dell’altro e ci potrebbero mettere nella posizione del traditore. Parlo di persone che, cercando la verità e facendosi carico della sofferenza altrui, sono ai confini fra il sé e l’altro, fra la propria società e quella del cosiddetto nemico, si muovono in entrambe le società, spesso con difficoltà. Le persone e i movimenti che creano solidarietà attraverso le relazioni umane sono le uniche in grado di costruire un cambiamento duraturo e sostenibile. Finora, forse sembra che si stia parlando di ideali astratti, ma in realtà mi riferisco a iniziative e organizzazioni ben definite. Vedi le organizzazioni della società civile che si occupano della protezione dei diritti umani come Breaking the Silence, B’Tselem, gli obiettori di coscienza, le iniziative di dialogo e condivisione della sofferenza, come ad esempio The Parents Circle-Families Forum, e tutti gli attivisti palestinesi e israeliani che ogni giorno lavorano insieme a basso profilo e senza denominazioni ufficiali per un presente e un futuro condivisi. Tutti ahime’ oggi minacciati, marginalizzati, uccisi e criminalizzati dal popolo e dal sovrano.
Giuseppe: Grazie Dario, credo che questa risposta restituisca davvero la posta in gioco non solo nell’incontro con il diverso che può diventare amico-nemico ma persino la partita analitica laddove questa venga intesa, con Pontalis, come traversata dei confini per poi ri-tornare su di sé: ritrovare, grazie all’incontro con l’altro, lo straniero che ci abita non può che essere l’antidoto migliore alla perdita di complessità e profondità. Questo scambio così ricco mi sembra ci mostri quanto, come aveva intuito Freud “nella vita psichica del singolo l'altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto, in questa accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è al tempo stesso, sin dall'inizio, psicologia sociale" a dispetto di chi, a tutt’oggi, vede la psicoanalisi freudiana come un sistema chiuso o la limita al solo intrapsichico. Un accenno finale credo meriti la questione di Gaza, ormai arrivata allo stremo e che esaspera quanto qui abbiamo appena tentato di intravedere, riserviamoci di trattarla in un nuovo articolo che benefici delle domande che queste prime considerazioni hanno aperto. Non resta qui, in questo clima così negativo, che ricordare due punti fondamentali: il primo è che la Società Psicoanalitica Italiana, il 27.06.2025 ha pubblicato una posizione chiara a riguardo del conflitto Israelo-Palestinese e che il 19.08.2025 più di mille psicoanalisti dell’IPA hanno condannato quanto accade a Gaza; il secondo punto è che anche la più terribile ripetizione è potenzialmente foriera di apertura al nuovo e di trasformazione. Proprio queste trasformazioni del negativo sono state recentemente affrontate da Maurizio Balsamo e Giuseppe Armogida in un saggio fresco di stampa Diniego e Speranza.
Dario: Mi sembra che la scommessa di trasformare il negativo e dosarlo al punto giusto sia la partita analitica che, per inciso, ho avuto il piacere di giocare come paziente per sei anni. Grazie a te Giuseppe e al Centro Psicoanalitico di Roma per questa opportunità di riflettere con calma su questioni profonde che ci riguardano tutti da vicino.

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Zochrot. (2025, Luglio). Tratto da https://www.zochrot.org/welcome/index/en

 



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