Lo scrittore discuterà il lemma dell'albero come trasmissione della vita psichica tra le generazioni
Riguardando il quarto lemma del ciclo degli incontri “AL CUORE DELL’UMANO, Psicoanalisi, Vita, Scrittura”, prima di soffermarmi sul titolo dell’evento, ho trovato la parola “albero” ed ho pensato che non poteva esserci associazione più prospera con la produzione di Mario Desiati e con la sua persona. Di alberi è ricca la sua terra, Martina Franca, con distese di ulivi, fragni, lecci, che incastonano masserie e trulli. Nei suoi libri c’è una larga descrizione di foglie e rami come di un fine conoscitore di botanica. Di radici e tronchi è intriso il suo sguardo. In occasione del Festival della Valle D’Itria di musica lirica, con un gruppo di colleghi psicoanalisti, abbiamo avuto occasione di incontrarlo e scambiare brevi osservazioni sulla sua scrittura, i suoi interessi, i suoi percorsi. Con grande estro e finezza intellettuale, ha giocato sul cognome di una collega e con rapidità ha proposto una serie di ipotesi etimologiche interessanti. Si è mosso per associazioni libere come accade nella stanza di analisi, in cui la mente dell’analista vede immagini, segue echi, deforma e poi trasforma parole in altre parole. Operazioni sempre fruttuose nel lavoro analitico, ma fondamentali e necessarie nell’ascolto del paziente soprattutto quando la sua mente è abitata da identificazioni alienanti. Come proposto da H. Faimberg, (Ascoltando tre generazioni. Legami narcisistici e identificazioni alienanti.2016) esse sono intrusioni nello spazio psichico del bambino di contenuti non elaborati, traumatici, di altri; in genere appartenuti alla generazione dei nonni e tramandati, come buchi di senso nella trama psichica, attraverso quella dei genitori. È nell’arco di tre generazioni che si esplica il processo, o meglio dire, il non processo. Ed ecco il cuore della questione di cui parlerà Desiati alla serata del centro: la trasmissione della vita psichica. Attraverso studi psicoanalitici, neuroscientifici e antropologici che cita con precisione nelle note finali del suo ultimo libro Malbianco, con un’elaborazione complessa e matura del suo pensiero, rappresenta nell’umano quello che in botanica si chiama il “malbianco”, malattia parassitaria che colpisce gli alberi. È un feltro, una farina rugginosa, che ricopre l’essenza verde della pianta facendone sparire i colori, devitalizzandola. Questa la metafora proposta che collega il segreto familiare e il silenzio teso a protezione di esso, alla deriva patologica. Malbianco è la parola trovata dall’autore per descrivere il trauma i cui effetti si vedono sulla persona stessa. Ciascuno trova strategie diverse per sopravvivere, cedendo una parte di Sé, come nel caso dello zio che perde la parola, del nonno che per salvarsi perde una lettera del cognome, dei sintomi dei protagonisti. Ma gli effetti sono devastanti anche a distanza e nei discendenti, nel tempo, laddove si sono persi i nessi causali e le catene di senso che possano rappresentare ponti con l’evento traumatico. È la storia di Marco Petrovici, del suo cognome, della sua famiglia; di un paese -l’Italia- i cui figli combattono nella Seconda Guerra Mondiale, vengono fatti prigionieri, soffrono la fame. Questa condizione di sofferenza è descritta bene in un altro libro che ho letto recentemente “Dalla parte di lei” di Alba de Cespedes, dove, anche qui, emerge la capacità di alcuni autori di rendere il lettore un osservatore sulla scena, di attraversare la scena. In questo è inevitabile il richiamo alla psicoanalisi e alla possibilità di ascoltare il racconto vivendolo e rendendolo vivo. Malbianco è anche la storia di popoli che migrano, gruppi di ebrei dalla Russia, costretti a lasciare i figli, e dell’attribuzione dei nomi dei trovatelli. È un racconto della nominazione a tutti i livelli, soggettivo e collettivo. È il racconto che io lettrice ho vissuto e che mi ha interrogata rispetto alla mia storia, a mio nonno di cui da bambina ascoltavo le vicende della guerra, che gli altri, i grandi, si annoiavano a sentire.
L’attenzione alla cura dei lemmi si evince subito anche in un’altra sua opera. Il libro con cui nel 2022 ha vinto il Premio Strega, Spatriati, è suddiviso in sezioni ciascuno con a titolo una parola, dal martinese al tedesco, seguendo i luoghi dei protagonisti, di cui viene spiegata definizione e origine. Le parole sono scritte nel dialetto martinese che assume un suono caratteristico e diverso anche al mio orecchio, di pugliese ma di altra zona. Desiati parla dell’armonia della parola come strumento del ricordo e della memoria. La poesia e il linguaggio poetico sono strettamente connessi alla musicalità intrinseca delle parole, capaci di evocare storie, al potere ritmico del dialetto e della poesia locale. La parola poetica è armonia, memoria e resistenza, portatrice di musicalità e potenza evocativa. La musicalità non è soltanto una questione estetica, ma un modo in cui il linguaggio vibra e restituisce un mondo psichico, identitario e collettivo.
La ninna nanna che fa da bussola ai personaggi ricorda la voce descritta da Jaynes (Il crollo della mente bicamerale, 1976), nelle civiltà antiche in cui, secondo la sua ipotesi, la mente funzionava con una voce interna “altra”; un dettato che veniva percepito come proveniente dagli dèi. Il linguaggio non era ancora esperienza di individuazione soggettiva, ma voce musicale e ritmica che guidava le azioni e precedeva l’emergere della coscienza riflessiva.
In questo senso, la musicalità che Desiati attribuisce alla parola poetica e narrativa non è soltanto segno o comunicazione, ma forza sonora, vissuto fenomenologico, che abita la psiche e ne struttura l’esperienza; il linguaggio che non appartiene del tutto all’individuo ma che lo attraversa, lasciandolo spatriato, straniero, eppure connesso a una memoria antica. La condizione di spatriato però è anche una dimensione ricercata, che consente alla psiche di emergere da una fusionalità mortifera. Consente di uscire un pò da Sé e dal proprio mondo per osservare Sé e il mondo circostante.