“Era Lo, semplice Lo, la mattina, alta un metro e cinquanta con una sola calza. Era Lola con i pantaloni. Dolly a scuola. Dolores nei documenti. Ma fra le mie braccia era sempre Lolita.”
Nel film “Lolita” di Stanley Kubrick (1962), tutto comincia con uno sguardo. Non uno qualunque, ma quello di Humbert, uomo colto, europeo, ironico e tormentato, che arriva in una cittadina americana per insegnare. Cerca una stanza in affitto e finisce nella casa di una vedova invadente e vanitosa, Charlotte Haze. Sta per rifiutare l’offerta, quando nel giardino vede lei. Dolores, detta Lolita. Una ragazzina di dodici anni, che succhia un ghiacciolo e lo guarda di sfuggita, con l’inconsapevole potenza dell’adolescenza che sta per esplodere. È in quel momento che nasce l’ossessione. Humbert non vede più Charlotte. Non vede più nulla. Solo Lolita. Humbert pronuncia questa frase come se stesse raccontando una poesia, o una tenera dichiarazione d’amore. Eppure, dentro quelle parole, si nasconde qualcosa di molto più cupo. Dolores Haze, la bambina che lui chiama Lolita, non è più una persona, ma una figura scolpita dalla sua ossessione. Non è più Dolores, con una storia, una voce, una volontà, ma solo “Lolita”, una maschera che lui le ha cucito addosso e che non può più togliersi.
“Era Lo, semplice Lo, la mattina…”, dice Humbert, e con questo gioco di nomi, Lo, Lola, Dolly, Dolores, sembra volerci far credere che la bambina sia tante cose, tante identità, quasi sfuggente, come una creatura di sogno. Ma poi aggiunge: “fra le mie braccia era sempre Lolita”. E qui si ferma ogni trasformazione. Nel suo abbraccio, la bambina diventa una statua, un’immagine fissa. Non può più crescere, cambiare, ribellarsi. È stata fermata per sempre nel ruolo che lui le ha assegnato. Quella frase, tanto poetica all’apparenza, è in realtà la confessione di un fantasma narcisistico. Humbert non ama davvero Lolita, o meglio, non ama Dolores. Ama la sua idea di lei, l’immagine seducente che ha costruito e su cui ha proiettato tutto il suo desiderio, le sue paure, il suo bisogno di possesso. La chiama Lolita perché non vuole riconoscerla come bambina. Perché una bambina ha diritti, ha un futuro, ha il diritto di dire no. Ma una “Lolita” no. Lei è un personaggio, una fantasia erotica che non può parlare, che non può chiedere di essere lasciata andare. È così che Dolores smette di esistere. Humbert non le ruba solo il corpo, le ruba il nome, l’identità, la possibilità di essere altro da ciò che lui desidera. In questo senso, Nabokov, con la sua ironia fredda e tagliente, non scrive una storia d’amore proibito, ma mette in scena la perversione del desiderio adulto quando si sostituisce alla realtà dell’altro. E lo fa con uno stile che ammalia, confonde, proprio come Humbert ammalia e confonde il lettore.
“Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Il mio peccato, la mia anima.”
Questa è l’iconica frase d’apertura del romanzo di Nabokov, ed è utilizzata anche nel film come dichiarazione disturbante dell’ossessione amorosa e della fusione tra desiderio e colpa. Racchiude l’intera tragica tensione del personaggio. Un amore che è, nello stesso istante, sublime e imperdonabile.
Per restare vicino a lei, la sua Lolita, Humbert accetta di sposare Charlotte. Ma è un inganno. Un gioco. Un modo per conquistare la figlia. Quando Charlotte scopre il diario segreto di Humbert, dove l’uomo confessa il suo amore per Lolita e il disprezzo per la madre, fugge in preda alla vergogna e viene investita da un’auto. Muore sul colpo. E allora Humbert si prende Lolita. Non con la violenza del gesto, ma con quella sottile, viscida della parola e del potere. La porta via con sé, in un viaggio attraverso l’America, da motel a motel. Dice che è una vacanza, dice che è amore. Ma dietro ogni stanza affittata c’è un patto non detto, un gioco torbido, un silenzio pesante che soffoca l’aria. Lolita, che ancora non sa distinguere il desiderio dalla colpa, si lascia portare. Sorride, flirta, ma poi si ritrae. Humbert la ricatta, la trattiene, la controlla.
“Parli come un libro, Humbert.”
Dice Lolita a Humbert, in tono ironico e sfuggente.
È una battuta breve ma densa, che riflette bene il contrasto tra la raffinatezza verbale e intellettuale di Humbert e la spontaneità irriverente di Lolita. Dietro l’ironia, si intravede anche l’ambiguità del loro rapporto e il gioco di potere sottile tra i due personaggi. Nel frattempo, un’altra figura si muove nell’ombra. Clare Quilty, uomo bizzarro e inquietante, drammaturgo, simbolo della perversione che osserva e aspetta. È lui che infine aiuta Lolita a fuggire. Anni dopo, Humbert la ritrova. Non è più la sua Lolita. È diventata una donna stanca, sposata, incinta, senza più sogni. Gli chiede soldi. Rifiuta di tornare con lui. E Humbert capisce, forse per la prima volta, che non ha mai amato Lolita. Ha amato l’immagine che ne aveva costruito.
Il film si chiude con il suo atto finale: il delitto di Quilty. Un gesto senza redenzione, intriso di vergogna e dolore. Ma il male è già stato fatto. Dolores, la bambina, non tornerà mai più.
Tra mancanze reciproche e confini violati, il volto dell’abuso tra dipendenza e codipendenza
Nel silenzio della relazione che si costruisce tra l’adulto e il minore, si annida spesso un gioco invisibile di proiezioni e bisogni irrisolti. L’adulto che abusa non è solo carnefice, ma spesso un individuo emotivamente immaturo, segnato da carenze affettive profonde e da un bisogno disperato di sentirsi visto, amato, riconosciuto. Il minore, a sua volta, si lega a quell’adulto come a una figura salvifica, quasi genitoriale, in grado di colmare i vuoti che la sua storia personale ha lasciato aperti. Sul piano psicoanalitico, si tratta di una co-dipendenza patologica, in cui il desiderio dell’adulto di controllare e possedere l’altro si intreccia con la ricerca infantile del minore di essere amato, anche a costo di rinunciare ai propri confini. Il minore, incapace di distinguere l’affetto dalla manipolazione, vive l’abuso come una forma distorta di relazione, mentre l’adulto proietta sul giovane le proprie ferite antiche, trasformando la fragilità dell’altro in uno specchio in cui placare il proprio senso di inadeguatezza. In questa dinamica, la violenza non è solo fisica o sessuale, ma si radica in una confusione affettiva, dove l’amore si mischia al potere, e la cura alla dipendenza.
Paul-Claude Racamier, ha descritto dinamiche simili con un termine preciso: l’incestuale. Non si tratta necessariamente di un atto sessuale tra consanguinei, ma di un’atmosfera psichica, una relazione soffocante in cui l’altro, spesso un bambino, viene invaso, assorbito, spinto a vivere secondo i bisogni emotivi dell’adulto. Humbert non lascia mai spazio a Dolores per essere se stessa. La vuole “dentro di sé”, come un’eco dei suoi sogni. Non le chiede mai chi è. Le dice chi deve essere. Ecco perché quella frase, “fra le mie braccia era sempre Lolita”, è così inquietante. È una formula magica, una trappola dorata. In quelle braccia, Dolores non è più viva, non è più libera. È la bambola di un sogno spezzato. È l’immagine fissa del desiderio che ha divorato la realtà.
L’origine di un ripensamento
Nel 1897, Sigmund Freud scrive una lettera al suo amico e collega Wilhelm Fliess che avrebbe cambiato per sempre il destino della psicoanalisi. In quella lettera, Freud ammette di non credere più alla sua “neurotica”, ovvero alla teoria della seduzione, secondo cui le nevrosi dell’adulto deriverebbero da abusi sessuali reali subiti durante l’infanzia. Il tono è netto: “Questa teoria non mi ha procurato alcun successo,” scrive, “mi sono reso conto che nella maggior parte dei casi non si trattava di eventi reali, bensì di fantasie inconsce.” Con questa svolta, Freud sposta il trauma dalla realtà all’immaginario, trasformandolo in espressione del desiderio e del conflitto psichico. Ma non tutti i suoi allievi seguirono questa linea. Uno fra tutti, Sándor Ferenczi, che negli anni Trenta osò mettere in discussione questa svolta teorica. Nei suoi scritti, tra cui l’intenso Diario clinico e il saggio “La confusione delle lingue tra adulti e bambini”, Ferenczi scriveva che molti traumi infantili sono reali, non fantasie. Il trauma, secondo lui, nasce quando il bambino viene esposto a messaggi ambigui da parte dell’adulto. Messaggi che mescolano affetto e desiderio sessuale, protezione e abuso. Una “lingua doppia” che il bambino non può decodificare.
In questo scarto tra le posizioni di Freud e Ferenczi si apre un territorio vasto e inquieto della psicoanalisi: quello in cui la violenza psichica non è visibile, ma agisce comunque, lasciando ferite profonde, spesso invisibili. Ed è proprio in questo spazio che si inserisce il pensiero di Paul-Claude Racamier.
Racamier e l’invisibile del trauma
Con Incesto e incestuale, pubblicato nel 2003, Racamier non si limita a definire l’incesto nel senso classico — come atto sessuale tra consanguinei. Piuttosto, introduce un concetto nuovo, più sottile e per certi versi più spaventoso: l’incestuale. Non un gesto, ma un clima psichico, un’atmosfera pervasiva che confonde le generazioni, cancella i confini, e toglie al soggetto lo spazio per crescere.
L’incestuale è una modalità relazionale che non ha bisogno di un atto esplicito per produrre effetti devastanti. Si manifesta quando un genitore invade l’identità psichica del figlio, lo imprigiona in una relazione simbiotica, annullando la distanza necessaria alla separazione. La casa, anziché essere un luogo di protezione e differenziazione, diventa una prigione affettiva. E il trauma si cristallizza nel non-detto. In ciò che non può essere nominato, né pensato, né ricordato. Per Racamier il vero tabù non è l’incesto in sé, ma la possibilità di riconoscerlo. La violenza non è soltanto fisica, ma simbolica. Sta nel silenzio, nella collusione, nella distorsione del linguaggio familiare. Si trasmette da una generazione all’altra come un virus psichico. In questo clima, l’abuso può anche non esserci in forma diretta, ma la sua energia traumatica agisce comunque. Annienta l’autonomia, avvelena i legami, corrompe la crescita emotiva. È una forma di abuso “normale”, quotidiano, difficilissimo da individuare. Eppure, è alla radice di molte sofferenze cliniche, disturbi narcisistici, psicosi, perversioni relazionali. L’incestuale non ha un colpevole identificabile, ma ha sempre una vittima: il soggetto privato del proprio diritto alla separazione, al desiderio, alla parola.
Lolita, o l’incestuale narrato
Forse nessuna opera letteraria rende visibile l’incestuale quanto “Lolita”, il romanzo di Vladimir Nabokov. Pubblicato nel 1955 e adattato per il cinema da Stanley Kubrick e poi da Adrian Lyne, Lolita racconta la storia inquietante di Humbert, un uomo adulto che intreccia una relazione sessuale con la dodicenne Dolores Haze, figlia della donna che sposa. A prima vista, la storia si configura come un caso di pedofilia o di “incesto sociale”, vista la relazione instaurata tramite il matrimonio. Ma letta alla luce del concetto di incestuale, la vicenda assume una profondità ben più tragica. Humbert non si limita ad abusare fisicamente di Lolita. La colonizza psichicamente. La sua ossessione non è solo erotica, è narcisistica. Lolita diventa uno specchio, un trofeo, un surrogato della giovinezza e della purezza perduta. È il possesso della sua immagine, non della sua soggettività, a interessargli. Tutto il romanzo è narrato dalla voce dell’abusante. Una voce colta, ironica, seducente. Proprio come nelle famiglie incestuali, il linguaggio viene manipolato per mascherare la violenza. Il lettore si trova coinvolto, complice, destabilizzato, prova attrazione per il narratore e, al tempo stesso, disgusto. È l’incestuale che agisce, come in una dinamica relazionale deviata, in cui la vittima non riesce a capire dove finisca l’amore e dove cominci il dominio. Nel film di Kubrick, c’è una scena emblematica. Lolita si abbassa gli occhiali e guarda Humbert. Un gesto carico di ambiguità, dove la seduzione appare quasi reciproca. Ma è davvero così? O è l’adulto che ha scritto quella scena nel corpo della bambina? L’incestuale non ha bisogno del consenso esplicito, perché si fonda sulla confusione delle posizioni: l’adulto attribuisce al bambino un desiderio che in realtà è suo.
Il trauma che non ha voce
“Il vero tabù,” scrive Racamier, “non è l’incesto, ma il pensiero dell’incesto.” In Lolita, questo tabù prende la forma di una narrazione che giustifica, che abbellisce, che si rifiuta di nominare l’abuso per ciò che è. Proprio come nelle famiglie malate, il trauma si annida nel non-detto. Nessuno denuncia, nessuno nomina, nessuno salva. L’abuso diventa parte dell’ambiente, dell’aria che si respira. E proprio per questo è tanto difficile da individuare, tanto più da guarire.
Altri psicoanalisti hanno approfondito queste dinamiche. Jean Laplanche, ad esempio, ha rielaborato la teoria della seduzione in chiave moderna. Nella sua visione, ogni bambino è esposto a “messaggi enigmatici” provenienti dall’inconscio dell’adulto, che dovrà poi tradurre nel tempo. Non c’è bisogno di un trauma esplicito: basta l’opacità dell’Altro per generare inquietudine. In questo senso, l’incestuale diventa una sorta di testo inscritto nella psiche, una grammatica del desiderio disfunzionale. Anche Janine Chasseguet-Smirgel ha riflettuto su questi temi, mostrando come l’incesto reale o fantasmatico mini le basi stesse della soggettività, corrompendo l’ideale dell’Io e alimentando perversioni relazionali. Il trauma dell’incesto, o dell’incestuale, non si manifesta sempre con crisi eclatanti. A volte emerge nella difficoltà di amare, di separarsi, di pensare se stessi senza colpa. Alla luce di tutto questo, Lolita non è solo una provocazione letteraria, ma una rappresentazione esatta di una dinamica clinica, quella in cui la dipendenza affettiva diventa violenza psichica, e la relazione si trasforma in un sistema chiuso, opprimente, senza via d’uscita.
Cosa dice la Legge
L’adulto può essere penalmente perseguibile se il rapporto si inserisce in una dinamica di autorità, fiducia o influenza: ad esempio nel caso di insegnanti, allenatori, tutori, o adulti che rivestano un ruolo predominante nella vita del minore. In questi casi, l’abuso non si manifesta con la forza, ma con un uso distorto della relazione, dove l’adulto sfrutta la posizione di potere o la dipendenza emotiva per ottenere il coinvolgimento sessuale del minore. Questa situazione costituisce reato, punibile con la reclusione, anche in assenza di minacce o costrizioni evidenti. Il concetto di violenza, quindi, si estende alla manipolazione, alla pressione psicologica, all’induzione affettiva che supera la capacità del minore di opporsi o di comprendere pienamente le implicazioni della relazione. La legge riconosce che la dipendenza affettiva può trasformarsi in una forma di coercizione, rendendo il consenso illusorio o indotto, e quindi giuridicamente irrilevante.
Conclusione. Pensare l’impensabile
La forza del concetto di incestuale sta nel far luce su forme di violenza che spesso passano sotto silenzio. Racamier ci invita a pensare l’impensabile. Che l’amore possa diventare una prigione, che il desiderio possa nascondere il controllo, che l’intimità familiare possa soffocare anziché proteggere. Leggere Lolita con questi occhi significa riconoscere il potere della psicoanalisi nel nominare ciò che la società preferisce tacere. L’incestuale ci obbliga a non fermarci al gesto, ma a interrogarci sulla qualità del legame, sulla verità del desiderio, sulla libertà dell’altro. Perché, come dice Racamier, solo nominando l’innominabile si può davvero iniziare a guarire.
BIBLIOGRAFIA
Chasseguet-Smirgel, J. (1985). La sexualité féminine: Figures mythiques, fantasmes, théories. Paris: Payot.
Ferenczi, S. (1988). Diario clinico (1932). (A. Bonomi, Ed. e trad.). Milano: Raffaello Cortina.
Ferenczi, S. (1988). La confusione delle lingue tra adulti e bambini: Il linguaggio della tenerezza e della passione. In Scritti sulla psicoanalisi (pp. 154–169). Torino: Bollati Boringhieri.
Freud, S. (1986). Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1904). (G. Boringhieri, Ed.). Torino: Bollati Boringhieri.
Kubrick, S. (Regista). (1962). Lolita [Film]. Metro-Goldwyn-Mayer.
Laplanche, J. (1992). La nuova seduzione originaria. In La rivoluzione copernicana incompiuta (pp. 123–145). Roma: Borla.
Nabokov, V. (1955). Lolita. Paris: Olympia Press.
(Edizione italiana consigliata: Nabokov, V. (1993). Lolita. (G. Pavia, Trad.). Milano: Adelphi.)
Racamier, P.-C. (2003). Incesto e incestuale. Milano: Raffaello Cortina Editore. (Trad. it. di L’inceste et l’incestuel, orig. pubbl. 1995)
Codice Penale Italiano. (Aggiornato). Articoli su abuso di minore e abuso di autorità. Accessibile su:www.normativa.it o testi ufficiali del Ministero della Giustizia.