Cultura, cinema e arte

L’ideale scintillante. K-pop, K-drama e l’inconscio collettivo nell’era coreana - di T. Romani

La pulsione sociale, per Freud, nasce dalla famiglia, ma oggi potremmo rovesciare il percorso: è il collettivo globale, la storia, con i suoi dispositivi digitali e le sue industrie culturali, a modellare la famiglia e i suoi legami


L’ideale scintillante.  K-pop, K-drama e l’inconscio collettivo nell’era coreana - di T. Romani

Era una mattina qualsiasi, in casa, con il rumore dell’acqua che scorreva in cucina e l’odore del caffè ancora sospeso nell’aria. Rebecca, mia figlia di nove anni, passò accanto a me canticchiando. O almeno, così credevo. In realtà emetteva un suono secco e ripetuto: a-p-t-p-t-a-p-t-p-t. Rimasi interdetto. Come si può fare una canzone usando soltanto una consonante occlusiva labiale sorda e una dentale sorda? Era come se qualcuno avesse tolto le vocali e lasciato soltanto l’ossatura percussiva della lingua, un ricamo ritmico più vicino al beatboxing che a una melodia. Durante la giornata però, quel motivo mi si incollò addosso. Passeggiavo, ed ecco che riaffiorava: a-p-t-p-t-a-p-t-p-t. Provavo a ripeterlo, e finivo per sorridere, senza capire se stavo imitando mia figlia o il frammento stesso che, ormai, abitava nella mia mente. Alla sera, finalmente, Rebecca me lo fece ascoltare per intero: una canzone vera, ben costruita, che funzionava. Glielo dissi, ma, per prenderla in giro e per una mia sottile resistenza, aggiunsi che, ai miei tempi, le canzoni si facevano con un’altra sillaba: pooo-po-po-po-po-poooo-po. Quel suono, per associazione di idee, mi riportò agli anni Ottanta e Novanta: al pop nostrano passato per MTV, Festivalbar, per no parlare di Superclassifica Show. A casa mia, però, mia madre non ascoltava Michael Jackson, ma Mamma Maria dei Ricchi e Poveri o Tu di Umberto Tozzi, brani che più tardi avrei incontrato solo nella coda di feste degenerate, quando la musica scivolava in karaoke collettivo. Forse fu per l’associazione tra la P e la T che mi venne in mente Gabry Ponte e il suo “Ho visto party da tutte le parti”, eco di una stagione in cui la dance italiana dominava le radio con leggerezza e ironia. Quel flusso di ricordi stava già insinuando un pensiero scomodo: che Rebecca stesse crescendo dentro una musica globale, e che questo mi collocasse altrove — non tanto più vecchio, quanto in un’altra geografia culturale. D’altronde lo stesso Gabry Ponte finisce ad essere l’autore di “ma che ne sanno I duemila”…Qualche settimana fa, in macchina verso il mare, Rebecca mi chiese di mettere alla radio una canzone chiamata Golden. “È K-pop”, disse. Premetti play. Era leggera, solare, una di quelle canzoni che abbassi i finestrini per cantare a squarciagola in un pomeriggio estivo. Mi incuriosii e la cercai su Spotify: Golden era la colonna sonora di un film d’animazione (k-pop demon hunters), ma soprattutto occupava il primo posto assoluto nella classifica globale delle canzoni più ascoltate. Non mi tornava. Come poteva un brano nato in un contesto così specifico scalare il mondo intero?

Il K-pop non è un genere musicale nel senso tradizionale: è una macchina culturale stratificata, nata dall’incrocio fra storia, politica e commercio globale. La Corea del Sud del Novecento attraversa occupazioni, guerre e metamorfosi economiche. Da colonia giapponese a ospitare basi americane, poi la divisione del Paese, fino alla risalita dalla periferia al centro. La musica è un termometro di queste traiettorie: l’eco dei generi afroamericani portati dalle basi USA, l’apertura al mercato cinese dopo la caduta dell’URSS, la pacificazione diplomatica con il Giappone. Negli anni Novanta, il governo coreano inizia a considerare l’industria culturale un settore strategico. La leggenda vuole che nel 1994 l’allora presidente Kim Young-sam cambiò radicalmente atteggiamento verso il cinema e la TV quando gli dissero che i ricavi globali di Jurassic Park equivalevano all’export di un milione di automobili Hyundai. L’industria dell’intrattenimento diventa così un pilastro economico e simbolico. La crisi finanziaria del 1997 accelera questa scelta: esportare K-pop e K-drama diventa un modo per risanare i conti e, insieme, affermare un’identità culturale distinta nell’arena globale.

Le etichette musicali sono il cuore del K-pop. Non si limitano a selezionare artisti, ma li formano fin da adolescenti — a volte bambini — all’interno di programmi di trainee system che durano anni. Ragazzi e ragazze vengono reclutati tramite audizioni nazionali o internazionali, e inseriti in un percorso di addestramento che include canto, danza, dizione, recitazione, lingue straniere (inglese, giapponese, cinese), cura dell’immagine e persino corsi di gestione emotiva. Il loro tempo è scandito da orari militari, prove fisiche e valutazioni costanti; i legami che si formano in queste “scuole” sono intensi, ma anche competitivi: non tutti arriveranno al debutto. Quando finalmente debuttano, gli idol non sono solo musicisti: sono attori, testimonial pubblicitari, modelli, personalità televisive. Il pubblico segue ogni tappa di questo percorso, creando un senso di appartenenza che va oltre la musica. In certi casi, si diventa “fan” dell’etichetta, più ancora che del singolo gruppo (fenomeno che ricorda da vicino quanto accade nell’underground, dove un’etichetta musicale esprime una forte identità e genera senso di appartenenza). L’aspetto collettivo è molto importante, non solo perché queste canzoni sono considerate orgoglio nazionale, ma assume un forte valore anche nel processo creativo. SM Entertainment, nel 2013, lanciò un Songwriting Camp: un ritiro di due settimane in cui produttori da tutto il mondo lavoravano fianco a fianco con gli artisti. Oggi è pratica comune. Il mainstream si intreccia con l’underground: produttori della scena hip hop o elettronica, come 250 e FRNK delle NewJeans, passano a scrivere hit mondiali, portando con sé l’energia e la sperimentazione delle notti nei club.

Qui, però, si apre una differenza culturale decisiva rispetto al nostro modo di pensare la creazione artistica. In Occidente, l’originalità individuale è il centro simbolico della produzione, retaggio romantico dell’immaginario del poeta-genio e frutto di una tradizione metafisica in cui “originale” significa sempre “primo” — un’origine pura da cui tutto deriva e a cui tutto, in qualche modo, resta debitore. In Corea, e più in generale nell’Estremo Oriente, il rapporto tra copia e originale segue altre traiettorie: come ricorda Byung-Chul Han in Shanzai, la creazione è vista come processo di trasformazione collettiva, e la copia può avere lo stesso valore dell’originale, perché l’originale assoluto, nella logica immanente della tradizione, non esiste. Non si tratta di produrre il “mai visto prima” come gesto solitario, ma di continuare un flusso di variazioni, di prendere ciò che esiste e farlo vibrare in un’altra chiave. Il K-pop vive di questo principio: assorbe generi globali e li rielabora fino a generare forme che, pur riconoscibili, sono nuove proprio in virtù della loro capacità di mutare continuamente.

Così il fandom non è un effetto collaterale del K-pop: è una sua architettura costitutiva. Gli Army dei BTS, milioni di fan sparsi per il mondo, pagano una membership annuale che garantisce accesso prioritario ai biglietti, contenuti esclusivi, e un senso di intimità costruita ad arte. Gli idol, tramite social come Weverse o V Live, parlano direttamente con i fan, condividono momenti della loro vita quotidiana, mostrano vulnerabilità attentamente calibrate. Non si tratta di “ragazzi ossessionati da celebrità” come spesso l’Occidente si affretta a etichettare: sono comunità politicamente attive, capaci di azioni coordinate su scala globale. Nel 2020 hanno sabotato un comizio di Donald Trump prenotando in massa i biglietti e disertando l’evento; più di recente hanno lanciato campagne umanitarie come Army4Palestine. Jungkook, uno dei membri dei BTS, si è tatuato “ARMY” sulla mano destra, rendendo visibile — in una cultura dove il debito verso chi ti sostiene è un valore altissimo — la propria appartenenza.

Dietro il glamour, il K-pop porta anche il peso delle contraddizioni della società coreana. La Corea del Sud ha uno dei tassi di suicidio più alti al mondo. È una “cultura della vergogna” nel senso antropologico di Ruth Benedict: il dolore più grande non è aver trasgredito una legge interna, ma essere disonorati agli occhi degli altri. In una società collettivista, ogni persona ha un debito verso la famiglia, i mentori, la comunità, e, nel caso delle celebrità, verso i fan che hanno contribuito al successo. La gestione dell’immagine pubblica è perciò cruciale: un passo falso può mettere a rischio carriere e reputazioni in modo irreversibile. Nel 2016, Tzuyu delle TWICE, allora diciassettenne, dovette scusarsi pubblicamente per essersi dichiarata taiwanese in TV: una frase bastò a scatenare proteste in Cina e a influenzare le elezioni a Taiwan. Anche i K-drama, probabilmente il prodotto più noto, condividono questa tessitura emotiva. Serie come Winter Sonata non solo hanno conquistato un pubblico femminile tra i 30 e i 60 anni, ma hanno trasformato luoghi reali in mete di pellegrinaggio affettivo: l’isola di Nami, location centrale del drama, riceve milioni di visitatori. Dalla metà degli anni Duemila, molti comuni coreani finanziano e sponsorizzano produzioni televisive con l’obiettivo di attrarre turismo. La KTO, Organizzazione Coreana per il Turismo, ha lanciato itinerari dedicati all’Hallyu — l’“onda coreana” — includendo luoghi legati a K-drama, K-pop, varietà e film.

Il K-drama è pensato per attraversare confini culturali: evita scene di sesso esplicite, si concentra su intrecci relazionali e conflitti morali. Il fatto che il 90% delle sceneggiatrici sia donna (contro il 27% negli USA) contribuisce a dare spazio a personaggi femminili complessi e a dinamiche relazionali sfumate. Le fan non si percepiscono come spettatrici passive, ma come agenti attivi, con una forte agency, che fanno trasmettere più volte le serie amate e costruiscono comunità coese. Netflix, intuendo il potenziale, ha trasformato la Corea in un “genere” a sé: Squid Game ha avuto per il drama ciò che Gangnam Style ha avuto per la musica, imponendo all’immaginario globale figure e trame che sono insieme profondamente locali e universalmente riconoscibili. Ed è qui che la psicoanalisi trova un terreno fertile. Nell’incipit di Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Freud sottolinea come la distinzione tra psicologia individuale e collettiva sia, in fondo, artificiale: l’altro è sempre presente nella vita psichica come modello, oggetto, soccorritore o nemico. La pulsione sociale, per Freud, nasce dalla famiglia, ma oggi potremmo rovesciare il percorso: è il collettivo globale, la storia, con i suoi dispositivi digitali e le sue industrie culturali, a modellare la famiglia e i suoi legami.

Dispositivi che oggi sempre più assumono la funzione di spazi creatori di soggettività. Creatore di un inconscio collettivo, come lo defninsce Alfredo Lombardozzi, il quale pure ci ricorda (in un bel libro che uscirà a breve) che non si tratta tanto di appplicare la psicoanalisi, ma di avere il coraggio di pensare spazi di contaminazione. Il legame fondamentale, più ancora della scelta d’oggetto, è l’identificazione: un processo in cui l’Io si arricchisce delle qualità dell’altro, introiettandole. Nell’innamoramento, invece, l’Io si impoverisce, ponendo l’oggetto al posto della parte più importante di sé. Tra identificazione e innamoramento, il passo verso l’ipnosi è però breve: Freud, infatti, definisce l’ipnosi una “formazione collettiva a due”. Lo spazio che allora si apre tra la dimensione collettiva-storica e la suggestione ci sembra di enorme importanza.

All’interno dell’Io, scrive Freud, si sviluppa un’istanza separata e talvolta in conflitto: l’ideale dell’Io, erede del narcisismo originario, che incorpora le richieste dell’ambiente e funge da sorvegliante interno. Detto altrimenti, l’ideale dell’io è quella sensazione che hai di essere sempre un po’ osservato. In certe situazioni, l’oggetto amato può occupare il posto dell’ideale, generando un legame tanto più forte quanto più collettivamente condiviso. Nel K-pop e nei K-drama, questo avviene su scala planetaria: l’ideale dell’Io non è più un derivato della sintesi edipica, ma una costellazione di identificazioni simultanee, multilaterali, che legano l’individuo a una molteplicità di “anime collettive” — nazionali, digitali, estetiche. Freud, aveva davanti le sue masse: le masse del Novecento che prendevano forma nelle piazze e nei raduni politici, guidate da leader carismatici. L’intuizione di farle derivare dal padre dell’orda primitiva era totalmente in linea con la cornice storica, semiotica e  collettiva nella quale abitava. Oggi le masse non hanno più bisogno di piazze fisiche: si radunano nello spazio reticolare dei social, sincronizzate da piattaforme di streaming e fan community. Eppure, il principio non è cambiato del tutto: le parole, i gesti, le coreografie, hanno ancora quella potenza “magica” di cui parlava Freud, capace di mobilitare o placare intere moltitudini. Harari ha immaginato i primi gruppi di sapiens legati non tanto dall’assassinio di un padre mitico successivamente totemizzato, ma da storie condivise; il K-pop e i K-drama mostrano come oggi quelle storie siano diventate industrie globali della partecipazione emotiva. E per la psicoanalisi, questo è un invito: ripensare i propri concetti non per adattarsi passivamente, ma per cogliere ciò che accade quando l’ideale dell’Io, molto più della traiettoria edipica, diventa il vero cardine del legame. In fondo, la cosa più coreana — che sia in una ballata di BTS o in un episodio di Winter Sonata — è anche la più universale, come ci ricorda Hwang Dong-hyuk, regista di Squid Game: una trama di identificazioni che non cercano sintesi, ma proliferano come motivi musicali che cominciano con un semplice a-p-t-p-t-a-p-p-t e finiscono per far cantare il mondo intero.

 



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