Teoria del modo di produzione eterosessuale e psicoanalisi

Cosa potrebbe significare, per la psicoanalisi, contemplare l’idea che l’eterosessualità costituisca un modo di produzione? La psicoanalisi può scegliere se continuare a patologizzare la sovversione di questo modo di produzione, oppure se auto-analizzare la nevrosi che le impedisce di prendere pienamente parte a questa rivoluzione.

Federico Zappino

 

La maggior parte delle autorialità femministe, gay, lesbiche, trans e queer che fanno parte dei miei abituali riferimenti teorici si sono spesso confrontate, e si confrontano tuttora, con la psicoanalisi. Talvolta in modo radicalmente detrattivo, definendola uno strumento patriarcale volto a conferire un fondamento pseudoscientifico all’assoggettamento delle donne agli uomini, attraverso l’imposizione dell’eterosessualità: si pensi a teoriche anche distanti fra loro come Monique Wittig (2019) o Eve K. Sedgwick (2011). Altre volte, invece, in modi volti a emendare la psicoanalisi dai suoi presupposti patriarcali ed eterosessisti, come nel caso di Judith Butler (1996; 2013a; 2013b; 2014; 2020), che se da un lato rigetta categoricamente ogni tentativo di risignificazione del “fallo”, dall’altro ricorre alle teorie psicoanalitiche di Joan Rivière sulla femminilità come masquerade, a quelle di Jessica Benjamin sulle possibilità di una triangolazione post-edipica del desiderio e, da ultimo, di Melanie Klein sulla riparazione. Altre volte ancora, infine, operando un cosciente detournement delle istituzioni psicoanalitiche, come nel caso di Mario Mieli (1977), che rintraccia proprio in Freud i sintomi dell’universalità del desiderio omosessuale, sostenendo poi che sia la società a “mutilarlo” per indirizzarlo verso l’eterosessualità, più “utile” ai fini della riproduzione non solo di un ordine patriarcale, ma innanzitutto delle popolazioni, in assenza delle quali nessuno stato potrebbe esercitare la propria sovranità, e della forza-lavoro, chiaramente necessaria al capitalismo. La differenza tra Freud e Mieli è che mentre il primo non mette in discussione il primato dell’eterosessualità a questi e ad altri fini, Mieli ripercorre invece lo schema freudiano, rivoltandolo contro se stesso, per immaginarne una sovversione definitiva, anche a fronte del fatto che l’imposizione sociale dell’eterosessualità sarebbe “uno dei fattori che determinano la nevrosi moderna e – dialetticamente – anche uno dei più gravi sintomi di questa nevrosi” (ivi, 29).

Un simile preambolo serve chiaramente a sottolineare che le mie posizioni sulla psicoanalisi sono strutturate, e senz’altro compromesse, da queste teorizzazioni, oltre che dalle profonde, e produttive, differenze che intercorrono fra loro. Ciononostante, in questa sede vorrei sottoporre a un uditorio non del tutto abituale una questione che in qualche modo abbraccia e precede ciascuna delle questioni sommariamente elencate: cosa potrebbe significare, per la psicoanalisi, contemplare l’idea che l’eterosessualità costituisca un modo di produzione (Zappino 2019; 2022)? Come tenterò di illustrare nel pur breve spazio di questo intervento, è proprio su tale questione, a mio avviso, che la psicoanalisi odierna continua a incontrare il suo più grande ostacolo.

È indubbio, d’altronde, che, sulla scorta della teorizzazione e dell’attivismo queer – alla luce di cui dovrebbe essere letta la depatologizzazione dell’omosessualità, nel 1990, e la parziale depatologizzazione della transgenerità, nel 2018, da parte del Manuale diagnostico-statistico dei disturbi mentali –, anche la riflessione e la pratica psicoanalitiche abbiano compiuto dei “passi in avanti”. Sebbene in modi tutt’altro che univoci, l’istituzione psicoanalitica non considera più disturbi del “normale” sviluppo psichico l’omosessualità e, ancora in parte, la transgenerità, dal momento che, in questo secondo caso, la patologizzazione ha ceduto comunque il passo alla diagnosi di “disforia di genere”, ancora intesa come prerequisito necessario a una transizione legalmente e socialmente riconoscibile. Tuttavia, è possibile che questi passi in avanti non esauriscano interamente il problema fondamentale dell’istituzione psicoanalitica e che, di conseguenza, non la conducano automaticamente verso la direzione “giusta”? Anche solo un passo in avanti può rivelarsi letale, infatti, se ci si trova sull’orlo di un precipizio.

Il precipizio sul quale continua pericolosamente a vacillare la psicoanalisi è quello della differenza sessuale. Per la psicoanalisi non si sfugge dal fatto che esistano solo maschi e femmine, e che la loro esistenza fenomenica non riferisca di una produzione sociale, bensì costituisca un dato essenziale, oggettivo e immutabile – al limite emendabile, come si è detto, ma solo al costo di vedersi diagnosticata la disforia, cioè un disturbo percettivo del proprio corpo. Come un buco nero, la differenza sessuale continua a detenere un campo gravitazionale così intenso che dal suo interno non può uscire nulla. Lo dimostra la reazione della platea dell’École de la Cause freudienne di Parigi al discorso di Preciado (2021), che non mirava a convincere i settori più conservatori dell’istituzione psicoanalitica a mostrare tolleranza nei riguardi dell’esperienza trans, quanto piuttosto a interrogarsi sulla razionalità che presiede alla produzione degli uomini e delle donne, tanto dei loro corpi quanto delle loro menti, lasciando dunque intendere che una simile produzione potrebbe anche avere esiti diversi, oppure potrebbe arrestare del tutto, finalmente, le proprie catene di montaggio.

L’ipotesi alla base di una teoria del modo di produzione eterosessuale è che gli uomini e le donne non esistono essenzialmente, ma sono piuttosto il prodotto di un rapporto sociale costante e performativo, fondato sulla trasfigurazione della produzione gerarchica dei generi (uomo > donna) nella “differenza sessuale”, la quale assurge a sua volta a metro di giudizio da cui dipende implicitamente o esplicitamente la valutazione, non meno che la possibilità, la conformità, l’inclusione o l’esclusione di ogni forma di soggettivazione e di relazione.

Si badi bene: non si tratta di mero costruttivismo sociale dei generi. Una simile teoria postula piuttosto che al “modo di produzione” – come già in Marx – è sottesa una razionalità specificamente eterosessuale, volta a produrre i corpi in funzione della riproduzione della società come eterosessuale. Ciò non significa affatto negare l’esistenza di differenze corporee, né che tali differenze tendano solitamente a manifestarsi in modi che consentono due macro-categorizzazioni (maschi e femmine). Al contrario, significa sostenere che i corpi acquisiscono un significato (o vengono prodotti come tali) solo all’interno di un regime discorsivo, simbolico e sociale in cui l’eterosessualità occupa una posizione cardinale: “non esistono organi sessuali”, disse non a caso Preciado (ivi, 45) ma “enclavi coloniali di potere”. In secondo luogo, significa individuare il nesso che intercorre fra le differenze corporee e le rispettive diseguaglianze, la gerarchia sociale, il dominio o la violenza di un genere sull’altro, la patologizzazione di coloro che eccedono le forme di soggettivazione normalmente associate a un genere o all’altro. Ogni diseguaglianza, d’altronde, esprime una relazione gerarchica fra posizioni costruite innanzitutto come differenti. E una teoria del modo di produzione eterosessuale vuole indurre proprio a riflettere sul fatto che se si guarda alle relazioni di diseguaglianza e di dominio fra le varie manifestazioni del genere e della sessualità assumendo, però, le differenze come fatti indiscutibili, anziché esse stesse come prodotti eterosessuali, si finisce per rafforzare quelle che sono fra le principali fonti di oppressione da mettere seriamente in discussione.

Se la società arrestasse la catena di montaggio della trasformazione eterosessuale dei corpi in generi binari – in altre parole, se sovvertissimo il modo di produzione eterosessuale – ogni gerarchia fra i corpi e ogni vincolo o obbligo relazionale fra loro verrebbe meno, così come ogni bisogno di sottoporsi a una diagnosi di disforia, dal momento che nessun corpo sarebbe “sbagliato”, ma sarebbe un mero corpo fra altri, più o meno simili, più o meno differenti, ma tutti in ogni caso eguali fra loro dal punto di vista del valore, della possibilità e della potenzialità. La psicoanalisi può scegliere se continuare a patologizzare nei termini di una psicosi la sovversione di questo modo di produzione, oppure se auto-analizzare la nevrosi che le impedisce di prendere pienamente parte a questa grande e promettente rivoluzione.

 

Bibliografia

Butler, J (1996). Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”. Milano: Feltrinelli.

Butler, J. (2013a). La vita psichica del potere: Teorie del soggetto. Milano: Mimesis.

Butler, J. (2013b). Questione di genere: Il femminismo e la sovversione dell’identità. Roma-Bari: Laterza.

Butler, J. (2014). Fare e disfare il genere. Milano-Udine: Mimesis.

Butler, J. (2020). La forza della nonviolenza: Un vincolo etico-politico. Milano: nottetempo.

Sedgwick, E.K. (2011). Stanze private: Epistemologia e politica della sessualità. Roma: Carocci.

Mieli, M. (1977). Elementi di critica omosessuale. Torino: Einaudi.

Preciado, P.B. (2021). Sono un mostro che vi parla. Roma: Fandango.

Wittig, M. (2019). Il pensiero eterosessuale. Verona: ombre corte.

Zappino, F. (2019). Comunismo queer: Note per una sovversione dell’eterosessualità. Milano: Meltemi.

Zappino, F. (2022). Il modo di produzione eterosessuale: Elementi per una teoria generale. In A. Montebugnoli (Ed.). Sulla soglia delle forme: Genealogia, estetica e politica della materia (pp. 181-208). Milano: Meltemi.

 

 

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