Attualità e nuove sofferenze

Sanremo, la censura e alcune riflessioni sul temine “fascista” - di T. Romani

"Il fascismo non è una fede politica ma è in contrasto con ogni fede politica, opprimendo tutti quelli che non si omologano al "pensiero Unico"...


Sanremo, la censura e alcune riflessioni sul temine “fascista” - di T. Romani

 

“Non suscitate un generale in voi

Non delle idee giuste

Giusto un’idea”.

(Rizoma. G. Deleuze e F. Guattari)

 

“Queste sono le parole che ovviamente condividiamo tutti. Queste sono le parole del nostro amministratore delegato Roberto Sergio”.

Così si chiude l’intervento di Mara Venier, diventato virale, dagli Shorts su Youtube ai Reels di Instagram. Una bobina di meno di sessanta secondi che sta facendo molto parlare e speriamo anche riflettere. In sostanza Mara legge il comunicato dell’amministratore delegato della Rai che dopo gli interventi di Ghali e Dargen D’Amico sente il dovere di doversi dissociare.

Non si parla di politica!

Superato un primo momento di stupore, legato alla presa di coscienza che Mara Venier esiste ancora (chi guarda più la televisione ormai) e che Ghali e D’amico, così come Chiara Ferragni e Fedez prima di loro, sembrano assurgere al ruolo di nostri attuali Che Guevara (ognuno ha i Che Guevara che può permettersi, evidentemente), abbiamo l’impressione di qualcosa di veramente inquietante.

Probabilmente non siamo i soli, se in questi giorni si sono moltiplicate le proteste davanti alle sedi Rai, come quella di Napoli, con tanto di manganellate sui manifestanti.

Crediamo che la psicoanalisi debba interessarsi alla Polis (prossimamente un convegno in tal senso), che i confini della democrazia ci tocchino profondamente, soprattutto quando forze illiberali attaccano la possibilità di esprimersi liberamente e sentiamo il dovere di prendere una posizione forte. D'altronde la regola fondamentale dell’analisi, forse l’unica regola del setting analitico, ovvero le libere associazioni, fonda uno spazio nel quale si può dire tutto, senza censura. Uno spazio democratico. Molti analisti, fin dalle prime generazioni, hanno sentito forte l’interesse per la politica. Pensiamo a Reich e a quel periodo nel quale la cultura spesso associava Freud a Marx, un pensiero che suonava rivoluzionario.

In tal senso vorremmo riflettere brevemente su una parola oggi sempre meno usata nel dibattito pubblico, forse la prima parola ad aver subito una “rimozione” nel nostro paese ultimamente. Ci riferiamo al termine “fascista”.

Oggi sembra quasi politicamente scorretto definire “fascista” un atteggiamento violento e illiberale. Eppure, fascista non è solo colui o colei che storicamente ha preso parte a quello stato totalitario che nei libri di storia è archiviato nel capitolo “fascismo”.

Per il nostro ordinamento giuridico il fascismo è anticostituzionale. Il che come spesso è stato fatto notare è paradossale in quanto una Repubblica libera fondata sulla libertà di associazione e di pensiero di fatto vieta tutto ciò che riguarda l’apologia e la ricostituzione del partito Fascista. Come mai questo paradosso?

Un signore che si chiamava Sandro Pertini, citando Voltaire, (è bello ricordare che la frase “Non sono d’accordo ma darei la mia vita perché tu lo possa dire” venne citata per la prima volta nel 1906 da una donna, l’attivista Evelyn B. Hall, che lo racconta nella sua biografia di Voltaire “The Friends of Voltaire”) diceva in un’intervista di combattere le tesi politiche diverse dalle sue, ma di essere disposto a dare la vita perché tu possa esprimere liberamente il tuo pensiero. “Rispetto la fede politica degli altri anche se polemizzo con loro”. Poi il giornalista gli chiede se rispetta anche la fede politica dei fascisti e lui, cambiando espressione, risponde che questa la combatte con altro animo. Il fascismo non è una fede politica ma è in contrasto con ogni fede politica, opprimendo tutti quelli che non la pensavano come lui. Pertini diceva di combattere, ma di farlo sempre sul terreno democratico. Ecco cosa significa essere fascisti, non tenere aperto questo terreno democratico e dunque una democrazia non può, nell’atto della sua nascita, atto che viene rinnovato costantemente, non può che definirsi escludendo il fascismo.

Ogni censura dunque è fascista.

Capite bene che sostenere che in uno spazio pubblico non si possa parlare di politica è totalmente fascista.

Così quelle manganellate davanti alla sede della Rai di Napoli ci sembrano proprio brutte. Mirano alle teste…

Il fatto è che il fascismo non è un evento storico, qualcosa che oggi non c’è più e che viene da fuori come un corpo estraneo che può essere riconosciuto e mandato via.

È piuttosto presente in potenza in ognuno di noi.

Negli anni Settanta Felix Guattari veniva spesso in Italia e teneva conferenze. Spesso erano incontri con gli studenti dei movimenti e nel ’73 ne tiene una che verrà successivamente tradotta in inglese con il titolo “every body want to be a fascist”. Ognuno vuole essere fascista.

Qualche anno dopo il 25 aprile 1995 alla Columbia University Umberto Eco parla di fascismo eterno. Fa ancora tremare i polsi la lettura dei 14 punti che per Eco definiscono lo stato etico assoluto fascista.

Il testo dell’intervento di Guattari oggi è parte del libro La rivoluzione molecolare.

Il punto centrale della tesi di Guattari è la relazione tra fascismo e desiderio. Il fascismo è immanente alla produzione di desiderio. Non viene dall’esterno ma si attiva in noi attraverso una microfisica di relazioni di potere. È nei piccoli rapporti quotidiani, dove le nostre relazioni possono suscitare un godimento nel limitare la libertà altrui. È nei rapporti famigliari, nelle scuole, in ufficio e nell’accademia. È nelle piccole e grandi paranoie ma soprattutto quando un desiderio si standardizza e si fissa su di un oggetto trascendente (come lo Stato), su di un centro magari identificato con una persona o con qualsiasi tipo di corpo (sociale) pre-unificato (il corpo come dovrebbe essere).

A questo Guattari contrappone un desiderio molteplice e aperto alle differenze, la cui consistenza è data da intensità singolari che si combinano l’una con l’altra e non determinano identità che possono venire totalizzate.

Pensiamo viceversa a come ultimamente non si possa fare un discorso senza queste derive totalizzanti.

Un desiderio “sovversivo” invece non rappresenta qualcosa che è già formato, ma contribuisce alla nascita di formazioni diverse. La sovversione è apertura verso il nuovo e la storia è piena di rotture dei limiti che rendono possibili spazi nuovi e nuove prospettive. La psicoanalisi lo sa bene e per questo il suo discorso è sempre sovversivo.

Per questo la politica è spesso sospettosa verso questo tipo di desideri. Questa micro-politica del desiderio invece diremmo che ha proprio la funzione di rifiutare di ammettere qualunque formula di fascismo.

Perché, ripetiamolo, il fascismo non è mai un fenomeno storico. È piuttosto transtorico, non mai risolto tra capi di stato a Yalta.

Ci si perdoni ora se su questi temi non possiamo che usare termini forti. Stiamo d’altronde definendo ciò che è alla base del nostro vivere comune e seguiamo la lezione di Pertini che riteneva che se avesse riconosciuto Mussolini, dopo la trattativa organizzata dal cardinale di Milano Ildefonso Shuster, tra Mussolini e gli esponenti del Comitato di Liberazione Alta Italia, lo avrebbe “abbattuto a colpi di rivoltella”. Pertini incontrò di fatto Mussolini in quell’occasione e non lo riconobbe. Ci piace pensare che nel profondo dell’animo di quell’uomo il ricorso alla violenza, per quanto le condizioni storiche lo imponessero, non fosse così semplice. Non riconoscere Mussolini rende Pertini sicuramente più umano, ma non risolve però la problematica di fondo, affrontata dal Presidente molti anni più tardi nel momento dell’intervista che abbiamo citato. Ovvero: l’opinione di chi vorrebbe mettere a tacere ogni altra opinione, è a sua volta un’opinione? La posizione di chi vorrebbe negare la libertà di espressione è ancora una posizione democratica?

Noi riteniamo che il nostro vivere comune si debba fondare su una posizione democratica e in quanto tale fortemente antifascista. Non bisogna avere paura di ricordarlo, tanto meno oggi. E bisogna poterlo riconoscere.

Rispetto a questi temi quale è la posizione della psicoanalisi?

La psicoanalisi deve essere, come Pertini, sempre in guerra. Non ci sfugge che “guerra” è una parola terribile che oggi soprattutto evoca degli scenari di devastazione e disperazione. Ma riteniamo pure che sia importante usare parole forti, come hanno fatto Gilles Deleuze e Felix Guattari nel capitolo XII di Mille Piani e, come vedremo, ha fatto lo stesso Freud. Deleuze e Guattari contrappongono il concetto di macchina da guerra all’apparato di Stato. La violenza che può esercitare lo Stato, come modello di identità, mantenimento di poteri stabili, non ha nulla a che vedere con la guerra che invece è soprattutto legata, nella lezione di Mille Piani, a meccanismi locali, bande, margini, minoranze, le quali sciolgono ciò che tenderebbe a riprodursi solo identico a se stesso.

Sembra di sentire le diverse letture che noi psicoanalisti facciamo della pulsione di morte. Il termine “morte” scelto da Freud non è molto lontano da “guerra” scelto da Deleuze e Guattari.

Questa guerra di cui parlano gli autori dell’Anti-Edipo è molteplicità pura, irruzione della metamorfosi che slega il legame per rilanciare il desiderio.

Mentre lo Stato concentra e mantiene, la psicoanalisi è guerra. È il discorso isterico, sempre pronto a dimostrare che il capo è illusione.

È un discorso quello psicoanalitico che sovverte gli ordini prestabiliti, libero per definizione, che può spaventare ma che spesso rappresenta una forza per pensare il nuovo.

Nella psicoanalisi c’è questa forza di distruzione, profondamente anti-istituzionale e anti-fascista, aggiungiamo noi. Il discorso dell’analista non può che essere così extra territoriale, legato al Fuori come direbbe Foucault. Attento a quelle spinte creative che prendono vita solo sul margine.

La nostra disciplina ha certo un rapporto con l’apparato di Stato, se vogliamo anche un rapporto di continuità, ma non può che essere in opposizione, in tensione con esso.

D'altronde la psicoanalisi non si autoesclude dallo Stato ma con esso non può che mantenere un rapporto problematico. La fortuna della psicoanalisi anche come istituzione è quella di assomigliare di più ad un rizoma, frammentato al suo interno, molteplice, fatto di mille posizioni diverse. Un’istituzione sempre anti-istituzionale.

Ciò che appartiene meno alla psicoanalisi è essere una scienza di Stato, un sapere identitario, anche se ogni tanto noi per primi sembriamo scordarlo. La tentazione, per continuare a dirla con Mille Piani, è quella di parlare conoscendo il Bene, come una scienza “regia”, tradendo la propria natura “nomade” e alternativa, che accoglie al suo interno la differenza.

La fortuna della psicoanalisi è non avere nel suo edificio teorico alcun concetto di identità e, al netto di interpretazioni evolutive, non sapere assolutamente nulla di cosa sia il bene. Non c’è nulla che centralizza la psicoanalisi, né come teoria, né come istituzione e anzi la storia della nostra disciplina ci insegna una in-disciplina sostanziale della psicoanalisi.

La guerra, nel nostro linguaggio la pulsione di morte, rilancia sempre il desiderio, mai il bene.  Dobbiamo quindi coltivare i margini e le minorità per rimanere scienza nomade.

Torniamo sul palcoscenico di Sanremo, davanti agli uffici della Rai di Napoli, tra le manganellate della polizia e i comunicati degli amministratori delegati che parlano a nome di tutti.

Adesso lo vedete il fascismo?

 

 



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