Pensare il due senza differenza sessuale?

L’insoddisfazione di non trovare casa nel post-strutturalismo queer, nella psi- coanalisi e nel femminismo ma il fatto di attraversarle tutte, può garantire un vantaggio epistemologico. Quello che questa non appartenenza consente è la possibilità di osservare come tutte e tre siano storicamente contingenti, e partecipi di un processo.

Elisa Cuter

 

Petulante come i bambini nella fase dei perché, ricordo di avere iniziato a dubitare della differenza sessuale molto presto. Non che non riconoscessi una differenza, ma continuavo insistentemente a chiedermi cosa rendesse questa particolare differenza quella ontologicamente rilevante, quella su cui si fonda la psicoanalisi: “perché proprio questa?” Questa centralità è logica, necessaria o è stata contingente, storicamente determinata, conseguenza di un modello socioeconomico? Lacan, lo spiegano bene Dean (2006) e Zupančič (2018), ha avuto buon gioco nel rispondere a questi sospetti eliminando almeno l’idealismo fantasmatico che sorreggeva il patriarcato: proprio perché non complementari, ma in quanto destinati all’asimmetria, all’impossibilità del rapporto sessuale, e anche a non divenire mai compiutamente se stessi, i due sessi hanno ragione di rappresentare la cesura fondamentale, la differenza. Con questa mossa la psicoanalisi è riuscita storicamente a rappresentare un vero superamento del positivismo e del determinismo, a sganciarsi tanto dal biologismo della riproduzione come causa della differenza quanto dalla norma di genere patriarcale e binaria come ordine armonico e fine del desiderio, mettendo in ridicolo, e dunque relativizzando, la fusione complementare dei sessi. In questo senso si è caratterizzata come una teoria che decostruiva un apparente status quo.

Oggi invece sembra cristallizzata in quel passato in cui questa auspicata fusione era ancora l’orizzonte principale contro cui ingaggiare la lotta, mentre la società sembra andare in un’altra direzione. Quella che Deleuze e Guattari prima, e le teorie queer poi, proponevano come un’alternativa è diventata una legge tendenziale: la proliferazione dei generi, la morte del simbolico, il divenire minoritarie di tutt* – forse il divenire donna di tutti, si potrebbe dire. Senza che questo abbia portato con sé grandi speranze di liberazione. Se questo fallimento sia colpa di un processo inconcluso, cioè delle sacche di reazione che permangono, o di una strategia inefficace tout court, non possiamo saperlo. Quello che è certo è che nel suo appellarsi alla differenza sessuale la psicoanalisi rischia non solo di situarsi nel campo reazionario che impedisce di esplorare le potenzialità di quella strada, ma soprattutto di non saper più dire abbastanza sul presente e soprattutto sul suo disagio. “Che ne sarebbe del simbolico se, nel solco di Luce Irigaray, al posto del fallo ci interessassimo alla “meccanica dei fluidi”, vale a dire a una scrittura prettamente femminile?” si domanda ad esempio Fabrice Bourlez (2022, p. 65). In effetti, la rivoluzione femminista ha lasciato delle tracce, ed è evidente che usare ad esempio ancora la patologizzazione dell’isteria per spiegare l’ingresso delle donne nel sociale non permetterebbe di operare nessuna critica efficace all’oggi.

Per parte mia posso dire che quello che non mi convince di proposte come quella deleuziana, sposata da Bourlez (2022), è l’obiettivo di dire “addio al due” (p. 169) una volta per tutte. Non mi convince perché questa pluralità mi sembra troppo simile all’indifferenziazione. Senza contare che in questa configurazione il due rimane, resta lì a simboleggiare la differenza sessuale, l’Edipo e tutto il resto, mentre gli si aggiungono accanto altri numeri, altre “possibilità” – supplementari come il femminile, e non complementari. Invece il due ci serve, trovo, per continuare a produrre un conflitto fecondo, per comprendere la geometria di posizioni che possiamo assumere nei confronti del desiderio, per poterci situare, tanto nella nostra vita quanto politicamente. Ha senso insistere su una dualità contro l’indeterminazione e l’arbitrio. Solo che, sarebbe questa forse la mia modesta proposta, questa differenza ancora binaria non va più intesa come sessuale, ma come una dialettica interna a ciascuno o per meglio dire all’uno (dal momento che “l’inconscio viene a noi dall’esterno” come scrive Zupančič, 2018, p. 22), nel suo essere sia soggetto che oggetto, nella sua oscillazione mai casuale ma dipendente da un imprevedibile incontro con l’altro e con l’Altro, e per questo passibile di assumere forme totalmente singolari e irriducibili a un numero finito di modelli. Una cesura fondamentale tra soggetto e oggetto, tra corpo e linguaggio, una differenza insanabile tra questi “due”, si dà in ognuno, uomo, donna, entrambi o nessuno dei due, etero, omo, bi, pan o asessuale. Kosofsky Sedgwick (2011) scrive: “Io non credo che le relazioni tra persone dello stesso sesso si basino di più sulla somiglianza rispetto alle relazioni tra persone di sesso opposto” (p. 194), riecheggiando Butler (1996): “È per me incomprensibile che le lesbiche possano essere dette ‘dello’ stesso sesso o che l’omosessualità in genere debba essere intesa come l’amore del simile” (p. 86). Ma è sempre Butler a criticare Freud per la sua incapacità di pensare davvero l’omosessualità, perché anche nella sua tesi della bisessualità primaria sono solo gli opposti ad attrarsi, seguendo cioè lo schema eterosessuale. Nel farlo sembra in contraddizione con Sedgwick e con se stessa, ma forse sta semplicemente passando da una logica della differenza, ancora aspirante alla complementarietà, a una di alterità radicale, che invece conduce a una dialettica: il rapporto tra sé e altro che esiste in ogni possibile combinazione di sesso e genere, che esiste internamente e in relazione a ogni individuo. Non si può abbandonare il due perché il due è costitutivo dell’uno.

La logica delle formule della sessuazione potrebbe allora essere ancora valida, e ancora bipartita, ma svincolata da una differenza che più che “sessuale” sembra ancora troppo “genitale”: se l’unico significante è il fallo, ma soprattutto se come sostiene Lacan ognuno è eterosessuale quando ama una donna, che bisogno c’è di chiamarla donna, perché non chiamarla semplicemente “altro”? Si dà del sesso (ci si espone cioè al fallimento del rapporto sessuale) quando si ama il non io. Insistere sull’universale dell’alterità è possibile se si sposta radicalmente l’accento dall’origine (persino Butler sembra ancora legata a questo mito, la dipendenza dall’Altro deriverebbe dall’ascendenza che ci precede) della vita alla sua fine (una fine che si esperisce ogni giorno nell’esperienza del limite, della cesura, dell’incompiutezza e del conflitto tra corpo e linguaggio). Postulando un soggetto per andare verso la sua dissoluzione. Si torna allora al sospetto iniziale: l’ossessione per il sesso in quanto origine non denota un certo mammismo del Padre, una spasmodica richiesta regressiva di tornare nell’utero, un Edipo non superato e anche a una certa volontà imperiosa, tipica del bambino, di assistere con curiosità e gelosia alla scena primaria? Non è questa la causa dell’attaccamento della psicoanalisi a una forma di famiglia sempre meno attuale? Non è altrettanto petulante quanto la mia speranza di poter essere uno (e quindi due) piuttosto che “innanzitutto altro”, in virtù della differenza sessuale?

La proposta post-strutturalista è mossa da uno slancio caritatevole, dalla volontà politica di non escludere nessuno, di provare a assumere come centro il margine, l’eccezione – che però è ancora pensata come tale. Una concessione magnanima che ricorda quello che dice Lacan sulla simbolizzazione minore che garantirebbe al “secondo sesso” molta più libertà (la donna non esiste). Non mi convince la carità della teoria queer, e non mi convince quella di Lacan, da cui mi sembra dipenda in fin dei conti quel femminismo della differenza che si è inorgoglito e definito sulla base della sua esclusione e subordinazione, abbracciando radicalmente la propria alterità. Tutte e tre queste soluzioni mi ricordano troppo quanto dice Butler (2017) riguardo alla norma eterosessuale: “La costruzione della legge come ciò che garantisce il fallimento è sintomatica di una morale degli schiavi che rinnega gli stessi poteri generativi che usa per costruire la ‘legge’ come impossibilità permanente” (p. 84). Come tanti, sento di non trovare casa in nessuna delle tre tradizioni che ho abbozzato (post-strutturalismo queer, psicoanalisi, femminismo), pur abitandole a vario titolo tutte, ma penso che questo possa garantire un vantaggio epistemologico. Quello che questa non appartenenza consente è la possibilità di osservare come tutte e tre siano storicamente contingenti, e partecipi di un processo. È il rapporto con il sesso il nodo di tutte queste teorie (e di queste pratiche), e questo è inevitabile, ma lo è perché “sesso” si definisce non come set di pratiche, né ovviamente come “origine della vita”, ma come “ciò che fa problema”, come pulsione di morte, che “infrange il miraggio di un senso condiviso” (Bourlez, 2022, p. 97), “qualcosa di intrinsecamente problematico e distruttivo più che di costruttivo delle identità” (Zupančič, 2018, p. 15). E ciò che fa problema cambia, tanto nella vita di ciascuno quanto nella Storia. Ancorare il Reale, la sua faglia, il due che ne scaturisce, alla differenza sessuale potrebbe non essere più utile, e forse neanche necessario.

 

Bibliografia

Bourlez, F. (2022). Queer psicoanalisi. Clinica minore e decostruzione del genere. Milano-Udine: Mimesis

Butler, J. (1996). Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”. Milano: Feltrinelli

Butler, J. (2017). Questione di genere: il femminismo e la sovversione dell’identità. Roma: Laterza

Dean, T. (2006). Lacan et la théorie queer. Cliniques méditerréenes, 74, 2006/2, 61-78.

Kosofsky Sedgwick, E. (2011). Stanze private: epistemologia e politica della sessualità. Roma: Carrocci

Zupančič, A. (2018). Che cosa è il sesso? Milano: Ponte alle Grazie

 

 

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