Attualità e nuove sofferenze

Open Arms, i salvataggi in mare e il “sintomo della distorsione mediatica” - C. Buoncristiani e T. Romani

Una cornice di senso "alterata" avvolge le navi che prendono in carico migranti. Il ruolo di routine produttive e dispositivi nella ripetizione di logiche inconsce


Open Arms, i salvataggi in mare e il “sintomo della distorsione mediatica” - C. Buoncristiani e T. Romani

Capita che un’operazione di salvataggio in mare sia raccontata come una “traversata dei disperati”. Mentre invece sono all’opera professionisti altamente qualificati e una struttura organizzativa progettata al millimetro per salvare quante più vite possibile. Oppure capita che si crei una “notizia”, se una migrante scende con lo smalto ai piedi dalla nave su cui ha compiuto la traversata. Come se per operare una Ong che soccorre migranti non richieda preparazione.

Come se il corpo di una migrante non avesse gli stessi diritti di quello di qualunque altra persona a trovare le sue vie per darsi vitalità. Come se fosse un peccato che questi professionisti riescano non solo a salvare le vite, ma anche, grazie a un pensiero che va oltre la sopravvivenza, si prendano cura anche del benessere delle persone che migrano. Di questo e di molto altro si è parlato lo scorso 16 dicembre grazie all’iniziativa del Centro Veneto di Psicoanalisi due volontari di Open Arms che ha ospitato due volontari di Open Arms, Valentina Brinis e Lorenzo Leonucci. I due operatori hanno potuto raccontare la loro esperienza decennale nel campo dei salvataggi in mare. Il bel resoconto dell’incontro, scritto da Patrizia Montagner e Anna Cordioli è disponibile sul sito del CVP e fa parte del ciclo “Violazioni dei Diritti Umani“. 

 

Per i giornali, stando ai titoli, questi corpi, queste persone, questi soggetti, i migranti e chi cerca di preservare i loro diritti umani sono scandalosi. O meglio: quello che risulta dal discorso dei giornali è una profonda distorsione del senso, una discrepanza rispetto a un esame di realtà che si vorrebbe se non obiettivo, quanto meno fondato su una realtà negoziata a livello intersoggettivo. Come è possibile? Come si forma questo sintomo a livello mediatico? Come si riproduce un meccanismo che a un livello individuale, profondo e psicoanalitico, come sottolineano Montagner e Cordioli, si basa sul diniego e l’evitamento di quanto - la vitalità del migrante, ma anche il suo impatto trasformativo e disequilibrante - rischia di intaccare la stabilità di un sistema sociale?

Il meccanismo che traduce e trasmette evitamento e diniego nel discorso mediatico si chiama routines produttiva. Le routines produttive sono logiche sull’essere e sul mettersi in relazione. Qualcosa di molto simile a un dispositivo inquadrante e che stabilisce ciò che può esistere (o non esistere) come “notizia”, ciò che se ne può dire e dunque il modo in cui lo si può trattare a livello emotivo e cognitivo. Come spiega qualunque manuale di giornalismo, il professionista della comunicazione (un po’ come il neonato con il suo ambiente di cura) “apprende” in automatico le routine produttive nei primi mesi di lavoro, semplicemente grazie ai “sì”, ai “no” e alle “correzioni” del proprio caporedattore. Anche i blogger non si salvano, perché sebbene non abbiano una testata editoriale dietro, hanno il giudizio dei like dei lettori, che in poco tempo comincia a piegare e “curvare” i temi scelti e il modo in cui “conviene” trattarli per ottenere popolarità. Le routines produttive sono una sorta di inconscio procedurale, un “si sente e si fa così”. Sono il “conosciuto non pensato” (qui ci viene in aiuto il Bollas de L’Ombra dell’oggetto, come anche il Foucault de Le parole e le cose) che sta dietro ogni discorso mediatico: apparentemente non c’è una scelta, né una volontà consciamente “politica” nello scegliere, ad esempio, di dare la prima pagina a un omicidio in un condominio anziché agli ultimi dati che segnalano un picco imprevisto di incidenti sul lavoro.

Così come apparentemente non c’è una cattiva coscienza nel segnalare con disappunto che su una nave dove sono stati salvati dei migranti il cuoco di bordo sia riuscito a organizzare una cena che è stato un momento conviviale di gratificazione ed entusiasmo. Questo perché è nel lavoro di un comunicatore “l’efficacia” e dunque il “successo”, è il criterio (dato per scontato) che stabilisce cosa fare e come farlo.

Eppure dietro questo “dato per scontato” c’è tutto il potere dell’inquadramento e del dispositivo. Un dispositivo che per dirla con Deleuze, “regola i campi di ciò che può essere visto e di ciò che può essere detto”.

Tanto più che quel dispositivo è all’opera in ogni momento e sempre è mosso da dinamiche difensive. Si ammanta del “buon senso” che definisce i corpi “per bene”, ma si rafforza di un certo sadismo.

Open Arms fa parte di ciò che arriva sotto la lente di ingrandimento del media. Ma questa dinamica, in maniera ancora più subdola, è presente in molti ambienti di aiuto. C’è tutta una micro fisica del potere in istituzioni come Servizi Sociali, Asl, Tribunali che risente della dicotomia necessaria a definire “la normalità” rassicurante.

Pensiamo ai corpi e alle soggettività chiuse negli spazi di cura. Certo non più istituzioni totali, ma luoghi nei quali attraverso dispositivi medici/psy si attualizza un potere: vecchi nelle case di cura, matti in comunità, i ragazzini delle case famiglia, i carcerati. Ma anche semplicemente corpi di povera gente, che esprimono dolore, magari scomposto, sporco, brutto.

Qui il disgusto di quei corpi diventa spesso retorica “per bene”, magari con una sfumatura di carità, che ci aiuta a definire le nostre identità, di classe sociale, di genere, di generazione e razza. Più in generale ci aiuta a definire ciò che è umano da ciò che non lo è.

Come ci ricorda Marco Lombardo Radice (Una concretissima utopia, 1993) queste figure dell’odio sono all’opera negli stessi dispositivi di aiuto. Ad esempio, lì dove la classe sociale dell’operatore non è così saldamente differente da quella dell’assistito. Tanto più oggi che chi si occupa di aiuto in contesti come il privato sociale, sempre più economicamente in sofferenza, è spesso un giovane neo laureato, nuovo proletario, che cerca di arrivare alla fine del mese. È frequente allora una sorta di insidiosissima invidia per coloro che possono giovarsi di “aiuti”, gli assistiti, e magari si vedono umanizzati dagli stessi dispositivi che disumanizzano l’operatore, costretto dalle necessità dell’esistenza a lavorare con un salario minino.

Quelle soggettività allora è bene che rimangano all’interno di un certo disgusto che ci aiuta a definirci e sentirci sereni nella nostra appartenenza ad un ceto sociale medio.

Che orrore se un immigrato ha un telefonino come il tuo, una disperata che scende da una nave ha lo smalto che hai comprato ieri, un ragazzino di una casa famiglia ha la camicia che ha anche tuo figlio, se vuole festeggiare il Natale come te o peggio ancora se un paziente psichiatrico fa sesso e si innamora. Ad ognuno il suo recinto e chi è animale se ne stia in gabbia.

Perché capita che tutto ciò che è umano ci tocchi, ma l’umano è un costrutto sociale, storico e culturale, che si definisce in base ad un non-umano. Che nessuno tocchi i segni di questa divisione e che non si confonda l’umano!

Riteniamo che l’odio che proviamo nei confronti dei corpi che riteniamo non umani, sia una forma molto particolare di sadismo che trova origine nella religione cristiana, nell’etica protestante (Etica protestante e spirito del capitalismo, 1965) che ci porta ad unire il dolore con il peccato. Perché alla fine nella migrante c’è una colpa, nella pazzia il peccato e il dolore è sempre unito ad una macchia per cui è inammissibile che chi si trova sotto dei riflettori, sofferente, porti l’insegna di un piacere e non la croce del figlio di Dio ( credo vada sempre maiuscolo). Ai figli di Dio si addice la povertà, una croce da portare e al limite una corona di spine, non certo le note frizzanti di arancia fresca e bergamotto di Coco Mademoiselle.

Eppure chiunque ha avuto a che fare con la sofferenza dell’anima sa bene che è proprio il piacere a rimettere in moto un processo di trasformazione, a rappresentare un possibile clinamen nel precipitare sempre uguale del dolore. Passaggio non da poco perché anche su un piano politico ci suggerirebbe dove investire nei progetti di aiuto.

Ecco allora che la testimonianza di Valentina Brinis e Lorenzo Leonucci diventa il tentativo di fare un discorso altro, fuori dalle routines produttive. Per rinegoziare, mettendola in discussione la semantica e l’azione della nostra accoglienza.  

 

 

 

 

 

 

 



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