Psicoanalisi nelle istituzioni

Raggi nelle tenebre - terza tappa - "Non di solo farmaco guarisce l’anima: la tentazione della psichiatria riduzionista e le sue tristi conseguenze" di Cosimo Schinaia

Il docufim storico più attuale che mai.


Raggi nelle tenebre - terza tappa - "Non di solo farmaco guarisce l’anima:  la tentazione della psichiatria riduzionista e le sue tristi conseguenze" di Cosimo Schinaia
“Autoritratto (dedicato a Paul Gauguin)” Vincent Van Gogh

 

 

Vedere il docufilm di Gianni Garko e Agostino Raff, "Raggi nelle tenebre", che descrive la bella esperienza fondativa della comunità-cooperativa di lavoro concepita e realizzata da Ezio Maria Izzo (i protagonisti sono gli stessi pazienti liberati dalla segregazione dell’Ospedale psichiatrico di Guidonia), permette a distanza di molti anni, di capire quanto alcune esperienze di riabilitazione abbiano segnato positivamente una trasformazione dell’assistenza psichiatrica, alimentata non da slogan, ma da una profondità teorico-clinica di rara qualità. Al tempo stesso, però, vedere la sua indecorosa fine a causa della mancanza di  lungimiranza, ma direi della violenta cecità degli amministratori, fa molto male. Questo film si costituisce come l’inequivocabile documento dello scivolamento della psichiatria italiana verso un organicismo di ritorno, i cui effetti sono purtroppo visibili oggi negli attuali servizi di salute mentale, nei servizi di diagnosi e cura e nella maggior parte delle cliniche psichiatriche universitarie.
Il film si apre con una citazione di Van Gogh tratta da una lettera a suo fratello Theo. E proprio l’arte di Van Gogh ci fa toccare con mano (e con gli occhi) che, come una pianta che cresce nel deserto, e non si  capisce come questo miracolo della natura possa realizzarsi, così la creatività è riuscita miracolosamente ad attecchire in un uomo, un artista portatore di una grave e intensa sofferenza psichica. Anche nel terreno manicomiale alcuni semi di creatività sono riusciti ad attecchire per ragioni misteriosamente riparative, ma anche e soprattutto come espressione di estrema sopravvivenza del Sé in una realtà inumana. Si tratta di forme di vita, di testimonianze di esistenza nonostante tutte le vessazioni pseudo-terapeutiche, alle quali avvinarsi con cautela, garbo, rispetto. 
E con grande cautela, garbo e rispetto vediamo la macchina da presa riprendere i volti solo in parte consumati dall’istituzionalizzazione e che trasmettono invece vitalità, intraprendenza, coscienza delle proprie  antiche e ritrovate competenze in uno spazio ambientale, una struttura capace di connettere e che esalta le potenzialità dell’incontro con le piante e gli animali, vissuti non come estranei da tenere alla larga o,
all’opposto, come oggetti da sfruttare, ma come elementi di un collettivo di cui i diversi esseri ne fanno parte allo stesso titolo.
La dimensione etica dell’esperienza proposta da Izzo e dai suoi collaboratori consiste nella prassi di un agire orientato alla creazione di un paradigma di avvicinamento al lavoro e di desiderio, alternativo rispetto a quello generalmente prevalente dettato dal sistema capitalistico contemporaneo, che propone un modello di progresso infinito e di massimizzazione del profitto, che orienta le scelte individuali e collettive verso  forme aggressive di sfruttamento delle risorse umane e ambientali.
Il bene del singolo dovrebbe non prescindere dalla necessità di rispettare ritmi, esigenze e difficoltà individuali differenti, e in tal modo, permettere il bene della comunità. L’assenza di una interconnessione morale con gli altri e la mancanza di rispetto delle difficoltà individuali favoriscono il rischio della decadenza, della destabilizzazione sociale, di una riduzione della libertà, della dignità e della solidarietà.
Dopo una fase storica improntata alla speranza di un’ assistenza psichiatrica sufficientemente buona, oggi assistiamo al netto calo di risorse e di dotazioni a favore dei Servizi di Salute Mentale, nati dopo la chiusura dei manicomi, che dovrebbero sostenere in termini terapeutici e assistenziali duttili, e quindi non aprioristicamente ideologici, i progetti di cura e di riabilitazione sociale delle persone sofferenti. Nonostante ancora oggi non sia del tutto chiaro in che termini la connessione fra psicosi e ambiente debba essere pensata, vista la complessità delle interrelazioni e la multifattorialità causale dei disturbi, si assiste, invece che a seri investimenti progettuali, alla totale mancanza di studio e programmazione degli spazi adibiti alla cura della malattia mentale, di progetti in grado di favorire la personalizzazione e la vitalizzazione dei pazienti e la protezione delle relazioni terapeutiche. È assolutamente necessario prevedere percorsi interconnessi a luoghi interstiziali, come quelli proposti dal film, quindi sottratti a un linguaggio formalmente e fortemente codificato e aperti a una comunicazione informale, meno gerarchizzata e divisiva, dove possa depositarsi ciò che è latente di strutturazione e di senso, che resta informe, informulato, in “transizione” nella psiche (Roussillon, 1988).
Viene proposto uno spazio intermedio tra relazione comune e relazione specializzata, fra spontaneità dell’incontro umano e intenzionalità dell’assetto terapeutico. È obbiettivamente più difficile, ma sicuramente più a affascinante pensare e poi creare percorsi di libertà e di democrazia effettive, che agevolino, accompagnino e proteggano l’entrata e l’uscita, il passaggio dall’esterno all’interno e viceversa, e progettare tragitti che si
intreccino e interconnettano con relativi luoghi di sosta o di attesa o di semplice passaggio, spazi di transizione che abituino al nuovo paesaggio e che permettano il lutto del vecchio in modo sobrio, senza scarti, senza strappi. Oggi è assolutamente necessario contrastare pratiche e ideologie scientifiche che, sedotte da tentazioni biologistiche, facciano prevalere una terapia farmacologica, depurata da ogni intento  relazionale e incapace di tenere conto delle esigenze esistenziali ed emotive dei pazienti, dei loro mondi interni, delle loro vicissitudini affettive. In un rinvigorito impeto descrittivo, assistiamo alla proposizione di sistemi di diagnosi delle malattie mentali ad alto tasso difensivo che, classificando, distinguendo e separando, propongono un’arrogante e svalutante esposizione medicalistica dei sintomi e degli eventi correlati, a cui soltanto associare lo psicofarmaco ritenuto corretto. Non meno pericolosa è l’assolutizzazione acritica di pratiche psicoterapeutiche di stampo cognitivo-comportamentale che, sostanzialmente evitando il 
confronto con le angosce più profonde, i silenzi più incomprensibili, le parole apparentemente destituite di senso, allontanano dal difficile, faticoso, conflittuale, ma insostituibile contatto emotivo ed empatico con le donne e gli uomini sofferenti. La rianimazione istituzionale proposta da Izzo va considerata la prima operazione di affrontamento diretto della cronicità e consiste in un duro e quotidiano lavoro anti-entropico per contrastare la tendenza alla stasi, all’immobilità e all’indifferenziazione, proponendo figure legate all’esperienza lavorativa quali il movimento, il ritmo, lo spazio e il tempo, che l’esperienza manicomiale aveva inesorabilmente coartato fino all’esaurimento. Scrivevo ventiquattro anni fa: “Dare ai ricoverati un nome, ricostruire o costruire ex novo insieme una storia possibile, aiutarli a scandire i ritmi di una quotidianità non
mortifera, a cui fosse possibile attribuire un senso, sono state operazioni complesse che hanno avuto bisogno di profonde conoscenze psicoanalitiche e del lavoro di gruppo, per non rischiare di scadere nel comportamentismo e nel pedagogismo” (Schinaia, 1998, p. 105).
La funzione rianimativa può essere pienamente assolta se lo psicoanalista si pone come garante della simbolicità di tutte le operazioni riabilitative e della loro narrabilità. In una logica pedagogico-comportamentista, il paziente viene considerato come una persona a cui insegnare come svolgere azioni di tipo professionale, di cui nel processo di cronicizzazione ha perso la conoscenza o la padronanza. Un approccio di questo tipo rischia di non tenere conto che l’insistenza sugli aspetti produttivi e socializzanti del paziente, se non calibrata e ritmata sui suoi tempi di elaborazione e di crescita mentale, possa alimentare la scissione, favorendo il rafforzamento del falso sé, adattato alle richieste del contesto, ma separato dal suo nucleo interno drammatico e sofferente, oppure svuotato e senza risorse. In secondo luogo poiché spesso il dramma di questi pazienti è costituito dalla debolezza delle forze coesive del sé, è necessario che questo aspetto sia al centro dell’interesse terapeutico e non tanto le prestazioni in quanto tali (Correale, 1991). La funzione della riabilitazione è quella di aiutare il paziente a mettere in moto dentro di sé un processo creativo e non a rispondere a un vuoto che bisogna riempire o a un difetto che bisognerebbe riparare (Hochmann, 1992). La riabilitazione, pertanto, dovrebbe agire in quanto i pazienti vengono reinseriti in un circuito di interesse e di desiderio e ciò a onta delle istanze distruttive, che quasi sempre hanno  caratterizzato il loro sviluppo, ostacolandolo o rendendolo altamente disarmonico (Petrella, 1993). Questo è l’insegnamento che ci viene da un film che dovrebbe essere proiettato nei servizi di salute mentale, non tanto per riandare nostalgicamente al passato nostalgico, ma per ritrovare le vigorose radici di un mutamento scientifico culturale che oggi stenta ad attecchire.

3/3


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