La destra usa l’ecosistema tecnologico per le proprie parole d’ordine. La sfida è creare vie alternative che riaprano la complessità.
Ti sembra, nel mondo in cui vivi, di rintracciare questi sintomi? L’attacco alle università, l’idea di un’egemonia conservatrice da ristabilire, la paura del comunismo. Sì, mi sembra. L’appello a un “fondamentalismo occidentale”, la morale puritana, l’invocazione dei valori della modernità insieme all’esclusione dell’Illuminismo? Sì, mi sembra. E hai notato un certo ridimensionamento del ruolo della donna, la rivendicazione del cristianesimo come unica religione compatibile con l’Occidente insieme al ripudio di ogni manifestazione di compassione cristiana verso chi è nel bisogno. Sì, l’ho notato. E hai fatto caso a come la rivendicazione della dignità della classe operaia non qualificata vada insieme a un completo silenzio sulle sue possibilità di miglioramento economico e all’adorazione esplicita dei tecnocrati neofeudali che violano le regole dello stesso capitalismo cui dicono di tenere fede? Sì ci ho fatto caso. Se questi ti sembrano sintomi, forse ti sei accorto di un cambiamento all’opera nel mondo. Chiameremo questo cambiamento “egemonia culturale della destra”.
Per comprenderne la meccanica conviene fare una riflessione sul linguaggio. Seguiamo il filo che unisce i segni ai dispositivi che li modulano. Il linguaggio di cui ci interessa parlare qui non è ponte tra ciò che vediamo e ciò che diciamo, né un principio di corrispondenza tra cose e parole. È piuttosto un innesto di parole su altre parole. Tanto che la sua unità operativa è la parola d’ordine. “Accetta i termini e le condizioni”, “Rimani aggiornato”, “Prima gli italiani”.
Sono enunciati che istituiscono obblighi, ruoli, autorizzazioni, ritmi di risposta. Ti inseriscono in un regime (capitalismo della sorveglianza, big data) e producono una realtà politica. In questa prospettiva la domanda scivola dal “che cosa significa?” al “che cosa fa funzionare chi parla e chi risponde?”. Perché ogni frase vale per la forza pragmatica che trasmette, ogni enunciato organizza cooperazioni e discipline, adesioni ed eccezioni. Stiamo dicendo che l’enunciazione rinvia sempre a concatenamenti collettivi: cioè a una scena pre-allestita di ruoli, media, tempi e spazi. È la scena che distribuisce il lessico, l’accento, la sanzione. Detto in altro modo: quando parli entri in una catena che ti collega insieme ad altri. Il parlare non è mai un fatto individuale, ma è un incastro complicato che funziona solo in gruppo, rimandando ad usi e regole e a tutto un collettivo che parla attraverso di te.
Ogni concatenamento dispone di due facce inseparabili, una materiale, l’altra espressiva: da un lato corpi, strumenti, architetture, protocolli, piattaforme; dall’altro parole d’ordine, format, ridondanze, icone. Una modifica del microfono, l’introduzione dell’algoritmo di visibilità sui social o lo spostamento dell’orario di un’assemblea riallineano la soglia del dicibile; l’introduzione di uno slogan, di un jingle o di un hashtag riposiziona gesti, affetti e affluenze. Ad esempio gli hashtag aprono spazi di dicibilità, insieme al meccanismo degli influencer e alla logica commerciale dell’Hype. E c’è tutta una rete di dispositivi esteticamente accattivanti venduti come i vecchi elettrodomestici, sempre connessi, alimentati dalle nostre mani.
In questa ecologia la significanza si addensa lungo serie di istituzioni che fanno e disfano soggettività — “chi può parlare, a chi, con quale autorità” — mentre le parole d’ordine operano con minima informazione e massima performatività: il contenuto basta a far passare l’atto, il resto è ingegneria del consenso, segnali di appartenenza, ripetizioni che sedimentano abitudini.
Tutto questo ambiente di dispositivi è potenzialmente una rete, un insieme di connessioni virtualmente imprevedibili. Ma avendo a che fare con il potere alla fine non potranno che organizzarsi per creare egemonie. Ma di chi? Qui si può rileggere Gramsci per orientarsi: l’egemonia era per l’intellettuale sardo direzione intellettuale e morale, costruzione di senso comune che a quel tempo si realizzava attraverso scuola, stampa, chiesa, associazioni, cultura popolare.
Anche oggi l’egemonia prende corpo in un blocco storico, cioè in un intreccio di istituzioni, pratiche e idee che rendono apparentemente “naturali” alcune gerarchie e desiderabili certi fini. Il ritorno di questo pensiero su Deleuze e Guattari è immediato: i concatenamenti collettivi costituiscono il piano operativo della egemonia, il luogo in cui le parole d’ordine si stabilizzano in rituali, manuali, palinsesti, feed.
Con questa bussola emergono con chiarezza i movimenti della egemonia culturale della destra contemporanea, evidentemente più a proprio agio della sinistra in questo ecosistema. Una parte significativa della destra ha investito a lungo in una strategia metapolitica: conquistare il terreno dei significati cosicché i palazzi del potere le cadano in grembo per gravità. La Nouvelle Droite lo ha teorizzato senza nascondersi: lavorare sui “valori” di fondo: “Tradizione, Sicurezza, Merito”. Saturarli di narrazioni, conferir loro la patina dell’ovvio; parole d’ordine poche, ripetibili, plastiche, capaci di diventare nodi di articolazione attorno a cui si allineano media, case editrici, scuole di formazione, centri studi, festival, influencer.
Il risultato è una appropriazione di grammatica gramsciana: egemonia come lunga marcia nel tessuto culturale, con l’obiettivo di rendere ragionevole ciò che ieri appariva estremo. Le cose che ci scandalizzavano tre anni fa, oggi sono diventate “normali” …
Sul piano linguistico l’operazione procede per concatenamenti e per catene di equivalenza: problemi eterogenei — tasse, criminalità, migrazioni, burocrazia, scuola — vengono legati… sotto pochi significanti centrali (“ordine”, “libertà”, “identità”), così che problemi diversi condividano una stessa radice e una stessa soluzione.
Più che dottrina sistematica, un montaggio operativo che funziona alla perfezione: parole d’ordine che attivano pubblico, orientano l’attenzione, semplificano le decisioni. La teoria egemonica post-marxista ha descritto questo passaggio: le identità politiche nascono legando domande sociali differenti attraverso simboli comuni e formati ripetibili.
E c’è tutto un inconscio “collettivo” che viene prodotto nell’operare di questi concatenamenti. Un desiderio di quelle stesse parole d’ordine.
Il sistema dei media amplifica e coordina. Ecosistemi informativi asimmetrici, con hub coesi — podcast, canali YouTube, portali, pagine social — che riciclano frame identitari e sospetto verso fonti esterne: è il desiderio che diventa paranoico, come ha osservato di recente anche Alenka Zupancic. In un simile ambiente la parola d’ordine si propaga come ritornello, rimbalza tra i titoli, s’incarna in meme, produce call-to-action sincronizzate. La ridondanza, il meme virale, diventa motore di obbedienza semantica. Le piattaforme aggiungono una regia di predizione comportamentale: l’economia dell’attenzione premia ciò che polarizza e promette appartenenza immediata, i ranking algoritmici rafforzano la coppia amico/nemico, la targettizzazione trasforma lo stesso slogan in esperienze personalizzate, fino a confondere persuasione e ambiente.
Guardando ai contenuti, non è più importante dimostrare verità ma costruire verosimiglianze. I soggetti legittimati a parlare sono ridefiniti: la “gente normale”, i “produttivi”, i “bianchi”. I protocolli emotivi sono ricorrenti: l’indignazione breve, l’orgoglio identitario, l’ironia corrosiva. Le cornici storiche sempre semplici e pronte per l’uso: “decadenza”, “rinascita”, “tradimento delle élite”. I segni devono distinguere interni ed esterni. Ciclo dopo ciclo la catena si ispessisce: nuove voci entrano purché restino sul medesimo giro armonico. Conta la pragmatica: formati, timing, coreografie dell’annuncio.
Se volete fare una prova basta leggere le reazioni nelle migliaia di commenti che seguono ad un titolo di giornale che contenga il nome di Ilaria Salis. Che siano troll non-umani amplifica solo questo discorso.
Ne discende il punto teorico e pratico: egemonia come ingegneria dei concatenamenti. Chi organizza gli ambienti di enunciazione organizza ciò che diventa pensabile, desiderabile, praticabile.
Per la stessa ragione qualunque possibile risposta antagonista passa dalla costruzione di concatenamenti alternativi: circuiti che rendano desiderabile la complessità, intreccino scuole e sperimentazione, aprano infrastrutture della conoscenza realmente pubbliche, formino alleanze tra saperi e lavori, inventino formati che uniscano rigore e accessibilità, ricalibrino i tempi dell’attenzione assegnando valore alla prova e alla cura delle evidenze.
Se allarghiamo la lente, ciò che si produce non è solo un orizzonte di parole d’ordine, ma anche un campo di vite spogliate: ciò che Agamben chiama nuda vita. L’egemonia culturale della destra non lavora soltanto sul linguaggio, ma sul confine che separa chi è incluso in una forma di vita piena e chi resta confinato al grado zero della cittadinanza, ridotto a corpo disponibile, a esistenza sospesa. L’ingegneria dei concatenamenti si appoggia qui a un dispositivo di esclusione che separa continuamente bios e zoé, politica e biologia, protezione e abbandono. La propaganda sui “clandestini”, la guerra contro i “devianti”, il disciplinamento dei corpi femminili e queer, la retorica securitaria che divide i cittadini “produttivi” dai “parassiti”: tutto questo istituisce aree di eccezione permanente, spazi in cui alcuni vivono solo come vite nude, esposte al potere senza garanzie: come l’Ice negli Stati Uniti gestisce l’immigrazione irregolare è solo un esempio. Gaza ne è la messa in scena più orribile, ciò che in questo momento non può non simboleggiare tutti i deboli della Terra. In questa luce l’egemonia appare come un doppio movimento: saturazione del discorso e produzione di scarti umani, articolazione di enunciati e al tempo stesso creazione di corpi sacrificabili.
La posta politica è qui, nella capacità di cambiare i confini del dire — spazi, tempi, saperi — per aprire l’espressione a diversi mondi possibili; solo così un altro discorso comincia davvero e con esso un’altra cartografia del collettivo.