Una breve psicoanalisi della freddezza come difesa relazionale contemporanea contro la paura di perdita di confini.
Nel cuore pulsante del nostro tempo emotivamente ipertrofico, tra oversharing e overload affettivo,
emerge una parola-totem che promette la salvezza: chill.
Chill è il mantra delle nuove generazioni, il balsamo dell’ansia relazionale, la coperta termica dell’inconscio in piena tempesta pulsionale.
Chill, che non vuol dire solo “rilassati”, ma: non farmi perdere il confine.
Non invadermi, non straripare, non fagocitarmi con la tua domanda.
Chill è il freno a mano tirato del desiderio.
Ma andiamo con ordine. Cos’è, in fondo, questo chill?
È uno stato d’animo? Un’estetica? Una posizione psichica?
È un assetto difensivo—sofisticato, ibrido, liquido—che lavora silenziosamente per impedire
all’oggetto di diventare troppo.
Troppo eccitante, troppo penetrante, troppo coinvolgente.
Chill è il nuovo fort-da: un gioco di presenza-assenza in cui si maneggia l’oggetto senza farsene
travolgere.
Un taglio sartoriale sull’intensità pulsionale.
Chill è anche un avverbio d’uso: “stai chill” può voler dire regola la tua angoscia, conteni il tuo
entusiasmo, non farmi specchio del tuo eccesso.
È una sorta di Super-Io gentile che sussurra: distanziati, non collassare nell’altro.
In una società che pretende di esserci sempre, di rispondere subito, di sentire tutto, chill è il sintomo
sano di un soggetto che ha imparato, magari dopo qualche catastrofe, a evitare la coazione a ripetere
del coinvolgimento totale.
Winnicott avrebbe forse parlato di chill come di una difesa contro l’impensabile angoscia della
disintegrazione: meglio sembrare disinteressati che frammentarsi nel contatto.
Bion, con il suo occhio clinico sull’evacuazione delle emozioni intollerabili, potrebbe leggere nel
chill una forma moderna di barriera alfa: un modo di rendere digeribile l’urto dell’incontro.
E Laplanche, che sapeva come l’Altro ci inocula enigmi, forse avrebbe sorriso: chill è l’antidoto al
messaggio enigmatico, il tentativo di renderlo inoffensivo.
Traduciamo? Se mi piaci troppo, ti chillizzo.
Se mi turbi, ti chillizzo.
Se mi ecciti, ti chillizzo.
In altre parole: metto la libido in modalità aereo.
Ma attenzione. Non confondiamo il chill con l’indifferenza. Il soggetto chill è in realtà, spesso,
ipercoinvolto—ma al rallentatore.
È l’isterico 4.0, che non grida più ma sospira.
È il fobico senza panico, che si protegge con playlist lo-fi e occhiali da sole interiori.
È il narcisista timido che teme la dissoluzione nel legame e si schermisce dietro a un “vediamoci
easy”.
In fondo, chill è una fantasia di controllo: controllare l’eccitazione, regolare la temperatura del
desiderio, disinnescare il transfert.
Una sorta di frigorifero relazionale dove tenere in fresco l’altro per non doverlo digerire subito.
Una cucina dell’inconscio a bassa temperatura.
Ma sotto lo zero emotivo, a volte, si annida proprio ciò da cui ci si protegge: la possibilità di un
incontro autentico, inquietante, perturbante.
E allora forse il compito dell’analisi, oggi, è anche questo: smontare il frigorifero, restituire
intensità, riportare un po’ di brivido, non chill, ma thrill.
Rischiare il coinvolgimento. Rischiare l’eccesso.
Rischiare, insomma, l’amore.