Cultura, cinema e arte

“Chi vuol parlare del tempo” e altri segni dei tempi che corrono. Di Chiara Buoncristiani

L’arte contemporanea intercetta il tema della co-costruzione di significato tra l’uomo e l’ambiente: l’emergenza climatica e le sue conseguenze. Tra apocalisse e post-umano alla mostra della Fondazione Prada Venezia.


“Chi vuol parlare del tempo” e altri segni dei tempi che corrono. Di Chiara Buoncristiani

C’era una volta “parlare del tempo”. Era il 1968 quando i volti di Marx, Engels e Lenin tappezzarono Berlino con la scritta “Tutti parlano del tempo. Noi no”. Si trattava di un manifesto della Lega degli studenti socialisti tedeschi: “parlare del tempo” era la chiacchiera dei partiti che volevano distrarre la massa grazie a temi irrilevanti, mentre il partito socialista si occupava di questioni veramente importanti per la popolazione.

Poi è arrivato un cambiamento radicale. Nel 2019 l’artista tedesca Anne-Christine Klarmann ha riproposto una parodia di quel manifesto con i volti di Judith Ellens, Carola Rackete e Greta Thumberg trasformando lo slogan in “Tutti parlano del tempo. Anche noi”.

Prende spunto da qui la mostra Everybody Talks About the Weather alla Fondazione Prada di Venezia (fino al 26 novembre 2023), curata da Dieter Roelstraete, per evidenziare l’urgenza di una conversazione sul cambiamento climatico, ma indicando anche le conseguenze: un cambio di forme e di paradigma in questa “conversazione”.

Per millenni il discorso dell’uomo sulla natura è stato un monologo. Soggetto era l’uomo, oggetto era la natura. Anche quando questa non era più da imitare. Anche quando, come soggetti, si era capito di non essere padroni in casa nostra. Era comodo e inevitabile dare per scontato di essere almeno “autori” dell’opera. D’altra parte, anche il trovato-creato della psicoanalisi (Winnicott) era pur sempre dentro una relazione tra umani, una madre e un bambino.

Ma che succede se a farci uscire dall’illusione di onnipotenza è una catastrofe climatica? Succede che per integrare quanto avevamo dissociato ci sono artisti che “collaborano” con il vento, con le api e con il fuoco che brucia le tele. Compaiono così opere co-create con l’ambiente. Installazioni e quadri in cui a fare il “disegno” sono chiamate le muffe o il lavorio dell’acqua sul legno e sulla pietra.

“L’immensità di questa crisi è soverchiante per le povere forze dell’immaginazione umana e, francamente, troppo deprimente per il nostro ansioso mondo dell’arte”, scrive Roelstraete nel testo della mostra. Sono allora queste opere in collaborazione con la natura un modo di pensare l’impensabile, di “dare un senso alla realtà corporea della nostra esposizione quotidiana – con la pioggia o con il sole – al mondo fisico, che è la nostra unica casa”.

La mostra cerca di affrontare l’impensabile iperoggetto che è il cambiamento climatico. Ricerca scientifica e ricerca artistica corrono parallelamente nell’allestimento, svelando narrazioni spesso involontarie e connessioni nascoste tra opere d’arte e meteorologia. Così, l’installazione di Pieter Vermeersch incorpora otto riproduzioni di opere di epoca moderna che permettono di aprire numerosi discorsi sul rapporto tra clima e l’influsso del cambiamento climatico nella storia dell’arte. Ci sono i colori del Mare di Ghiaccio di Friedrich (1823-24) che trasformano simbolicamente l’anno senza estate (il 1916) dopo l’eruzione del Monte Tambora nelle Indie Orientali olandesi quando si determinò un drammatico raffreddamento mondiale. E c’è  anche Cacciatori nella Neve (1565), dove Bruegel dipinge una scena di caccia innevata, durante il più drastico calo delle temperature avvenuto durante la “Piccola era glaciale” che causò ondate di carestie e inverni particolarmente rigidi tra la metà del Cinquecento e del Seicento.

“Arrivati al 2022, la sovrappopolazione, l’inquinamento e un’evidente catastrofe climatica hanno causato una grave penuria di cibo, acqua e alloggi in tutto il mondo”, si legge dal classico distopico di Richard Fleischer,  “2022. I sopravvissuti”. Significativo è il fatto che finora solo la fantascienza – genere letterario che lotta per un riconoscimento da parte del mainstream culturale come forma d’arte “alta” a pieno titolo – abbia finito per trattare sistematicamente il cambiamento climatico come una realtà ineludibile del XXI secolo.

Ma è forse l’opera dei fotografi Beate Geissler e Oliver Sann a rispondere alla domanda: che succede se l’angoscia per la perdita di centralità dell’umano non si riferisce più solo a un cambiamento “culturale” ma riguarda il “reale”? Che succede se l’Apocalisse smette di essere una proiezione della paura del nuovo e diventa previsione di una fine concreta? Attivi a Chicago i due artisti lavorano insieme da oltre venticinque anni e nel lavoro esposto a Venezia intercettano il concetto di Antropocene: un’era geologica in cui è pervasivo l’impatto dell’attività umana sugli ecosistemi e sulla geofisica della Terra. Geissler e Sann compongono una “partitura” con 37 frammenti di testi tratti dal genere climate fiction e foto. Scorrendoli avanziamo in un futuro dove sono descritti gli effetti del clima sulla società umana. A intervallare il ritmo costante delle notizie apocalittiche, una serie di fotografie cliniche, di piante che terminano con un chip. Strane propaggini tecnologiche che sembrano suggerire che il futuro appartiene agli ibridi: di cultura e natura, uomo e macchina, e anche speranza e disperazione.

 

 

 



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