Attualità e nuove sofferenze

Il vero vincitore del festival di Sanremo è il discorso politico che può essere simbolizzato

Quello che a Montecitorio non ha avuto rappresentazione spunta sul palco dell’Ariston: le ideologie sono vive e riguardano il “corpo”, l’identità e i confini del soggetto


Il vero vincitore del festival di Sanremo è il discorso politico che può essere simbolizzato

di Chiara Buoncristiani

Finalmente un discorso politico: a Sanremo. Da Montecitorio al palco dell’Ariston la differenza salta agli occhi. La contiguità temporale dei due eventi vale paradossalmente come un’associazione di idee e diventa sintomatica.

Di là, in Parlamento, il circo mediatico di grandi elettori che sembrano in gita al lunapark, tutti a tentare di saltare la fila per fare un altro giro sull’ottovolante del gradimento popolare, oppure a sfidarsi alla giostra del tiro a segno per poter dire “Il Presidente-lo-scelgo-io” (alla fine, forse colti dall’angoscia di essere travolti dalla loro stessa confusione, hanno posto fine all’escalation rifugiandosi in Mattarella, attribuendo a lui, come unico adulto sulla scena, il compito di proteggere l'Istituzione, ristabilendo il limite e l’esame di realtà).

Di qua, un festival che ha surrogato la funzione politica, ospitando e al tempo stesso superando i nuovi blocchi ideologici. E’ stato grazie a un’imprevista alchimia, in parte dovuta all’intuito dei conduttori, all’intelligenza delle conduttrici e alla sensibilità dei comici, se la kermesse è riuscita a modulare lo scontro, costituendosi come una sorta di cornice elaborativa extra moenia.

Alcuni hanno argutamente osservato che Amadeus ha fatto il Cencelli, misurando con il bilancino le rappresentanze identitarie. A cominciare dalle vallette (che, per altro, sono state chiamate “coconduttrici”): la Muti, ancora bella era la “diversamente giovane”, Lorena Cesarini, colta e integrata ma comunque “nera” e vittima di razzismo, la “travestita”, Drusilla Foer, incarnazione vivente di un corpo di uomo, soggetto maschio, che si presta a ospitare una donna, un’Altra femminile…

Quest’ultima ci ha fulminato con un monologo che - senza retorica – è un intervento di psicoterapia della politica. Come vaccino alle opposte rivendicazioni identitarie, Foer ha indicato la via dell’unicità. Nella ricerca, nell’ascolto, nella cura, nell’assunzione di responsabilità verso la propria unicità, e verso quella dell’Altro, ha detto, sta la strada per ritrovare uno spazio condiviso. Neanche due giorni dopo ed è arrivata Sabina Ferilli a mostrarci, nel suo di monologo, che tipo di domande bisogna porsi, quali limiti propri c’è da riconoscere, insomma quale lavoro psichico occorre prima di trovare “la propria, unica e autentica voce”, per metterci la faccia ed essere credibili.

Le crisi del corpo e dell’identità sono la base affettiva delle nuove ideologie, che i politici di professione manipolano senza però comprenderla. Credono così di poter sedurre “il popolo degli elettori”. Ma poi finiscono per rimanere vittime del meccanismo da loro stessi fomentato. Chi di angoscia narcisistica ferisce...

A Sanremo - nei testi delle canzoni, nella messa in scena delle esibizioni, nella scelta degli ospiti e dei comici - i temi della differenza, del limite, del corpo e dei suoi attraversamenti, non hanno mai smesso di occupare il palco: le spinte integrative che erano sembrate arenarsi nell’insabbiamento della legge Zan sono venute alla ribalta, incarnate dalla fluidità di tanti artisti che mai come quest’anno hanno scelto di esprimerla, quasi a farne una bandiera. Di certo più che l’amor, potè il quattrino, nel senso che complice anche l’effetto Maneskin, i discografici devono aver capito che manifestare la propria anima queer paga, marketing alla mano.

Il problema del riconoscimento reciproco tra soggetti di qualunque “genere”, razza e livello culturale è tornato in continuazione al festival dei fiori, dove i mazzi sono stati consegnati sia agli artisti maschi, sia alle femmine. Certo, si dirà, è parecchio più facile consegnare un mazzo di fiori a un uomo che non pareggiare gli stipendi delle donne a quelle degli uomini. 

Le nuove ideologie fanno da “farmaco sedativo”, da calmante. Ad esempio, rispetto a cambiamenti troppo rapidi della cultura e della società potremmo avvertire un senso di smarrimento e di perdita di ciò che conosciamo, potremmo angosciarci o perfino deprimerci. Ecco allora che ci viene in soccorso la nuova ideologia, che ci aiuta a barattare depressione e ansia con la rabbia. L’ideologia ci sostiene nel rifiutare chi è diverso, per genere, colore della pelle, provenienza, età, stile di pensiero... E’ la rabbia dei penultimi contro gli ultimi, dell’anziano contro il neofita, dell’operaio che ha perso il lavoro contro il migrante, dell’adolescente non visto che bullizza il coetaneo.

Zalone ha cominciato il suo monologo dal loggione dell’Ariston, facendo il verso ai politici populisti ha urlato: “Io sto con il popolino”. Non è il caso che poi abbia cantato la canzone del transessuale che accusa il professore di greco antico perché “di giorno spiega e la notte poi si piega”. Perché le nuove ideologie valgono per tutte le polarizzazioni identitarie, che semplificano una realtà complessa, dividendola in due: maschi contro femmine, binari contro non-binari, vaccinati contro no-vax, bianchi contro neri... Il risultato è costringere il soggetto in un dilemma paradossale, comunque perdente, tra sottomettere e venire sottomesso, escludere e essere escluso, offendere e essere offeso.

Le nuove ideologie, insomma, cercano di far fuori proprio il riconoscimento dell’unicità di cui Drusilla ha parlato. Foer ha messo in scena ambiguità e ipocrisie della guerra delle differenze trasformando Amadeus nella sua valletta e poi travestendosi da Zorro: metafora del continuo possibile rovesciamento di potere, fintanto che si sta dentro la dinamica vittima-carnefice.

Le vecchie ideologie, questa è la notizia, non sono affatto finite, hanno solo smesso di fondarsi esclusivamente su un’economia materiale. La distribuzione della ricchezza, delle possibilità e del sapere sono ancora un problema, ma su questo si è innestata una questione ancora più esplosiva e urgente di economia psichica e sofferenza identitaria. E’ per via dell’economia materiale degli spot pubblicitari e degli sponsor, tuttavia, se a Sanremo abbiamo sentito così tanti discorsi politici.

Siamo uguali o siamo diversi? La domanda si ripropone quando alle battute di Fiorello sui No-vax, Zalone fa eco con la parodia del virologo. In un mondo dove l’ignorante è narcisisticamente ferito se gli si parla di quello che non conosce, la colpa della scienza è quella di aver creduto di poter fare un discorso riconosciuto di per sé come “autorevole”. Di avere insomma sottovalutando il rischio di una iniqua distribuzione delle risorse del sapere. Chi non ha avuto strumenti per comprendere la scienza, come può tollerare di sentirsi “culturalmente” assoggettato? C’è voluta Sabrina Ferilli per lasciare “gli argomenti complessi a chi è competente” e per ammettere: “Volevo fare un discorso sulla bellezza, che non è quella esteriore, di cui non dobbiamo essere schiavi. Ma poi mi sono ricordata che per entrare in questo vestito è una settimana che mangio radici!”.

Certo, non si è parlato per niente del tema della giustizia sociale e penale, né della questione dell’uguaglianza dei diritti tra le generazioni. Ma in fondo sempre di spettacolo stiamo parlando, anche se sotto c’era del buon marketing. I protagonisti, alcuni di loro almeno, hanno avuto l’intelligenza di essere “metariflessivi”, citando l’orchestra del Titanic. Indimenticabile il duetto canoro eseguito da Fiorello e Amadeus: un medley di canzoni tristissime ballate su un ritmo da carnevale brasiliano. Come a segnalare una robusta consapevolezza del grado di diniego e maniacalità di cui anche il festival porta i segni. Per dirla con la Rappresentante di lista, cantante che si è intestata la canzone tormentone dei prossimi mesi: “Che paura intorno, è la fine del mondo. Sopra la rovina sono una regina”.

 

 



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