Avant-coup e Après-coup

La lingua ignota del corpo - di C. Buoncristiani

Après coup di “Cosa può un corpo” di T. Bastianini


La lingua ignota del corpo - di C. Buoncristiani
Anthropométrie de l'époque bleue - Yves Klein

 

 

Ildegarda da Bingen, mistica e filosofa del XII secolo, inventò una Lingua ignota per dire ciò che il latino e il tedesco dell’epoca non potevano esprimere: il mistero della connessione tra cosa e pensiero, tra materia e spirito, tra suono e senso, tra oggetto e rappresentazione. È un’immagine potente evocata da Tiziana Bastianini nella parte finale del suo intervento dal titolo “Che cosa può un corpo? Dalle tracce somatosensoriali all’esperienza di un corpo tutto per sé”. Nella lettura proposta quella della lingua ignota appare come metafora del lavoro analitico: la costruzione di una lingua nuova, capace di dare forma a un’esperienza che non ha parola ma cerca espressione. Un’esperienza che produce un sapere che si traccia nel corpo e attraverso di esso può essere colto e messo in gioco. Come per Ildegarda, anche in analisi l’urgenza di comunicare - la spinta alla semiosi – prescinde e precede la possibilità di farlo attraverso il linguaggio della rappresentazione, e anzi comporta un’immersione creativa in una semiotica che passi dal gesto, dal tono, dal ritmo affettivo, da quella viriditas — forza generativa, pulsante in ogni essere vivente — che diventa vero e proprio segno della vitalità psichica.

Il riferimento alla viriditas ci introduce alla dimensione ontologica della riflessione di Bastianini, che riconduce le forme della clinica a quelle della vita stessa. Al suo movimento sacro e indomabile. Sacro qui sta a definire proprio ciò che il linguaggio non sa circoscrivere, ma che del linguaggio fonda la possibilità. Quando Ildegarda scrive: «solo Dio, la divinità vera che abita ogni atomo vibrante dell’universo, può unire sostanza e segno», sembra anticipare il passo dell’Etica di Spinoza che Bastianini pone al cuore della sua ricerca: “la mente e il corpo sono una sola e medesima cosa concepita ora sotto l’attributo del pensiero, ora sotto quello dell’estensione”. La sostanza è unica, ma l’uomo ne conosce solo due attributi. Tra i due — tra cosa e idea — si apre lo spazio del corpo, luogo della meraviglia e dell’enigma.

Questa connessione tra Ildegarda e Spinoza risuona come un controcanto teorico e poetico: è l’asse di un pensiero che si muove, parafrasando Domenico Chianese, verso l’unità vivente del reale. Da Spinoza a Winnicott, da Freud a Ogden, da Green ad Anzieu, ciò che viene interrogata è la possibilità di una conoscenza incarnata, di un pensiero che non si separi dalla sensazione, da quell’area che Eugenio Gaddini, più volte evocato durante la serata, ha definito psicosensoriale e che nelle soggettività contemporanee troviamo sempre intrecciata alla psicosessualità. Il corpo, nel suo “parlare” e nel suo “pensare” — come già scriveva Donne nei versi citati da Bastianini — diviene soggetto e non più semplice oggetto di osservazione.

In analisi accade qualcosa che sfugge al linguaggio ma che trasforma l’esperienza psichica. L’analista tocca, nel senso più ampio del termine, qualcosa della sofferenza o della soggettività del paziente, e da quell’incontro nasce una differenza. Come poter intercettare ciò che avviene nel campo trasnferale incarnato? Come ne possiamo parlare? E, ancor prima, quali dispositivi utilizziamo — ben oltre la parola - perché una trasformazione sia possibile? Si apre qui una questione cruciale che coinvolge il metodo psicoanalitico, la teoria della tecnica della psicoanalisi e l’esplorazione delle sue possibili estensioni.

Se la lingua ignota del corpo è ciò che la psicoanalisi contemporanea interroga, occorre ampliare le ipotesi stesse sui funzionamenti inconsci: il modo in cui l’inconscio si manifesta, la natura stessa della sua espressione e gli strumenti che ne consentono l’ascolto.

Le semiotiche del corpo sono molteplici: non nelle parole, ma tra le parole. «Dobbiamo considerare una clinica della comunicazione nella relazione analitica che passa attraverso il corpo, l’atto, la motricità, la sensorialità. Non esiste infatti uno scambio verbale che non sia accompagnato da risonanze corporee. La voce, l’intonazione è corpo». In questa direzione — prosegue Bastianini — «le forme di comunicazione psichica che utilizzano l’azione non vanno ridotte alla sfera dell’agito, ma comprese come differenti forme di espressione dell’inconscio, come semiosi affettive, rivelatrici di moti alla ricerca di legame psichico per comunicare».

Sulla scia della psicoanalisi contemporanea, l’ascolto si spinge oltre i confini del linguaggio, aprendo la metapsicologia alla pluralità delle forme espressive dell’inconscio. Fare analisi allora consiste nell’attraversare la “lingua ignota” fino a produrre l’esperienza di un corpo tutto per sé.

Nelle culture contemporanee, e persino nelle scienze della materia, sembra risuonare una medesima “messa in tensione” di confini concettuali. Questo di certo segnala una mutazione di paradigma, ma allo stesso tempo dimostra la rilevanza dell’interrogativo sullo statuto del corpo e delle tracce sensibili. Una particella elementare, prima di essere osservata, è virtualmente in più posizioni: il suo statuto è informe, come l’inconscio prima dell’incontro. È la funzione percepiente che dà forma all’universo nell’attimo stesso in cui lo incontra: ma allora cosa garantisce la corrispondenza tra la cosa e la sua rappresentazione? Nelle cosmologie antiche, nelle filosofie orientali e nella mistica medievale, questa garanzia era il sacro, ciò che tiene insieme la sostanza e il segno, la cosa e la sua figura. Più laicamente, lo stesso principio che Ildegarda chiamava viriditas, oggi ritorna con linguaggi diversi in una pluralità di saperi: nella biologia vegetale di Mancuso e nella fisica quantistica, nell’antropologia di Latour e nelle neuroscienze di Damasio e Gallese fino alla teoria della plasticità di Malabou. Ciò che accomuna tutti questi vertici osservativi è il considerare connessioni segniche che avvengono prima del linguaggio e che nel loro avvenire danno forma alle condizioni di possibilità di una codifica del sensibile, come una rete di intensità che tesse la materialità semiotica del reale.

Il corpo come soglia dell’inconscio

In questa prospettiva, Bastianini si colloca all’interno della linea della psicoanalisi post-freudiana che, da Winnicott a Bion fino a Ogden, ha concepito l’esperienza analitica come processo di co-creazione: una trama a due corpi che pensano e sentono insieme. L’inconscio non è una scena già scritta, ma un campo di emergenza che prende forma nella relazione. L’analisi, allora, non è soltanto interpretazione di contenuti, ma luogo di generazione di senso.

Questo passaggio comporta un mutamento nella stessa concezione della psiche: da archivio di rappresentazioni a campo dinamico di virtualità. Come scrive Deleuze, il virtuale non è l’irreale, ma ciò che può divenire reale; è il piano delle potenze in attesa di attualizzazione. L’inconscio corporeo appartiene a questo registro: è il luogo delle possibilità psichiche ancora non dinamizzate, il serbatoio delle ripetizioni da cui attinge ogni nuovo inizio. Ogni analisi diventa così un laboratorio di attualizzazione, uno spazio in cui qualcosa del virtuale prende forma.

Anche la memoria e le tracce originarie, in questa prospettiva, modificano il proprio statuto. Non sono più archivio di ciò che è stato, ma movimento stesso attraverso cui il passato continua a lavorare nel presente. Bergson parlava della memoria come durée, una durata che continuamente ricrea: la vita psichica, per lui, è una vibrazione costante tra ricordo e percezione. È su questa linea che si muove la riflessione di Bastianini: la memoria non è un deposito, ma una trama di sensazioni e risonanze che si riattualizzano nell’incontro analitico, generando nuove forme di pensiero.

Il corpo — con la sua memoria implicita e procedurale, con la sua sensibilità tattile, con le sue modulazioni toniche, ritmiche e affettive — diventa così la soglia dell’inconscio: il punto in cui la psiche si fa materia e la materia si fa senso.

Il corpo come spazio di semiosi affettiva

Se l’inconscio, come mostra Tiziana Bastianini, non è più solo un sistema di rappresentazioni ma un campo di intensità e potenze in attesa di forma, allora anche la relazione analitica deve essere ripensata come luogo di co-creazione incarnata, un laboratorio attrezzato per accogliere turbolenze e vuoto. Non si tratta più di interpretare ciò che il paziente “dice”, ma di sintonizzarsi con ciò che accade tra i corpi in analisi — oscillazioni affettive, movimenti, silenzi che non appartengono a nessuno e tuttavia trasformano entrambi.

Thomas Ogden descrive il campo analitico come uno spazio intersoggettivo “sognato insieme”, in cui analista e paziente sono coautori di un’esperienza che non è dell’uno né dell’altro. Qui l’inconscio si manifesta non come discorso, ma come gesto relazionale: un modo di essere in contatto che precede e supera il linguaggio.

È una prospettiva che dialoga con il Moi-peau di Didier Anzieu, per il quale il corpo è il primo involucro psichico, una membrana che registra e trasmette sensazioni, affetti, contatti. Bastianini ne raccoglie l’eredità ma la spinge oltre: la pelle non è solo limite o contenimento, ma superficie di scambio e di creazione. In questa visione, come ben illustrato dagli esempi clinici discussi durante la serata scientifica, il corpo dell’analista non è neutro né trasparente: è un corpo che risponde, che sente, che diventa parte del linguaggio stesso della cura.

La psicoanalisi, allora, si fa arte del contatto — nel senso più concreto e insieme più simbolico. Ogni incontro analitico comporta una trasformazione materica: come l’artista che lavora dentro la sostanza viva della tela, l’analista modula una materia che è sempre una forma in via di generazione. È forse per questo che Bastianini evoca l’immagine di Anselm Kiefer e dei suoi carotaggi psichici: scavi nella materia della memoria, che portano alla luce tracce ancora pulsanti.

In questo processo, la parola torna ad avere un peso fisico, quasi tattile: ben lungi dal limitarsi alla sua funzione referenziale diventa condensazione di affetto e risonanza corporea. Non si tratta di tradurre il linguaggio del corpo in parole, ma di permettere che l’esperienza corporea generi la propria forma simbolica.

Ogden, con Winnicott e Bion, direbbe che è in questo spazio intermedio — il reverie field — che la psicoanalisi diventa generativa: là dove analista e paziente condividono un’esperienza che li modifica entrambi, prima ancora che prenda nome. È la zona che Winnicott chiamava spazio potenziale: luogo che non è né realtà né fantasia, ma campo del possibile, dove il pensiero nasce dal contatto: soglia e matrice.

La conoscenza connettiva, la clinica e il vivente

Come le radici di un tubero, la conoscenza non procede più solo per linee ascendenti ma per propagazioni laterali, contatti sotterranei, scambi imprevisti. È una semiotica del vivente: il senso non si costruisce solo per rappresentazione, ma per contiguità e risonanza.

In questa rete, anche la psicoanalisi — suggerisce Bastianini — trova un nuovo posto. Uno dei nodi di un campo di saperi che si trasformano a vicenda: neuroscienze, biologia vegetale, estetica contemporanea, fisica del vivente. Sapere non come dominio, ma come co-appartenenza.
Una psicoanalisi che non interpreta su un soggetto, ma pensa con la materia vivente del mondo.

È la stessa logica che il già citato Stefano Mancuso riconosce nelle foreste:  una intelligenza distribuita che comunica attraverso radici, miceli, funghi, scambi bioelettrici. Bastianini sembra dire che la psicoanalisi appartiene a questa foresta: che anche la mente umana è un sistema connettivo e rizomatico, aperto a legami imprevisti, a sensazioni che transitano da un corpo all’altro, a significati che emergono nella relazione con un ambiente. Una psicoanalisi ecologica — non perché “parli di natura”, ma perché si riconosce nella logica della vita.

Questa mutazione riguarda tanto la teoria quanto la clinica. Le soggettività contemporanee sono sempre più ibride, interspecie, tecnologiche: non deviazioni, ma nuove forme del vivente. Nuove attualizzazioni di ciò che può un corpo.

La nuova ferita narcisistica è che l’essere umano non è più l’unico centro né l’unica misura, ma nodo di una rete di relazioni tra corpo e macchina, organismo e ambiente, umano e non umano.

Potremmo così pensare a una psicoanalisi del vivente e dunque dell’inconscio esteso: una psicoanalisi che per prendersi cura dell’individuo contemporaneo si trova a interrogarsi sul respiro stesso della vita, sulle sue micro-connessioni, sulle lingue ignote che attraversano corpi, piante, algoritmi, suoni, immagini.
Come Ildegarda, ci invita a inventare parole nuove non per dominare l’inesprimibile — ma per restargli accanto, nella differenza di potenziale che precede ogni concetto.

In fondo, forse, la psicoanalisi non ha altro compito che questo: continuare a imparare quella lingua che la vita parla quando ancora non ha nome.

 



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