Avant-coup e Après-coup

"Tra Winnicott e Ogden: note su gioco e contemporaneità." di S. Pilia

Pit-stop durante un coast to coast e ritorno - Roma, 11.06.2025


"Tra Winnicott e Ogden: note su gioco e contemporaneità." di S. Pilia
"Bambini che giocano' di Max Liebermann

Che cosa bella l’esperienza sperimentata dai bambini durante un gioco. Non c’è niente di più serio dell’inseguimento creato con l’acchiapparella. Non vi è niente di più emozionante della trepidante attesa durante il nascondino, accovacciati scomodi in quell’anfratto o in un buio sottoscala si possono toccare con mano le fantasie dell’incontro temuto e al contempo desiderato dell’amica/o che sta per arrivare. Meglio di qualunque identificazione in un personaggio di un film o di un libro, stavolta il corpo in gioco è proprio il nostro e noi sappiamo che l’Io è prima di tutto corporeo. Potessimo almeno trovare in noi stessi, o in coloro che sono come noi, una qualche attività in certo modo affine al poetare! - ci ricordava Freud (1907)[1] – Anche il poeta fa quello che fa il bambino giocando – aggiunge in un passo successivo.

Alcuni individui riescono nell’impresa di continuare a giocare e introduco questi brevi note proprio perché Ogden “usa” il pensiero di Winnicott per creare/trovare la sua dialettica, giocare per l’appunto tra l’avvicinamento e la differenziazione, il montaggio e lo smontaggio, in un lavorio che non può che costituirsi in modo paradossale per produrre dei punti di vista originali rispetto all’Autore anglosassone, ma nei quali se ne riconosce comunque la matrice in filigrana. È quanto mi sembra abbia cercato di mettere in luce la Dott.ssa Catarci nella sua recente e molto attenta analisi[2], ad esempio, a proposito del tema della terzietà, dove sottolinea come il terzo in Ogden non è più il terzo come referente e depositario di una funzione paterna, neppure istanza conoscitiva che inscrive la filiazione in una catena generazionale, bensì il terzo si porrebbe piuttosto nella posizione di qualcosa che nasce dall’incontro di due soggettività, di quanto di nuovo può essere generato nella coppia analitica. D’altra parte, nel commento al suo lavoro e durante la stessa serata presso in nostro Centro, la Dott.ssa Calvosa sottolinea come, pur nella ricchezza del suo modello, Ogden resta radicato in una cornice intersoggettivista, dove il rischio è che l’inconscio venga concepito come un campo co-emergente più che come una struttura organizzata e attraversata dal conflitto pulsionale e dalla mancanza, lasciando sullo sfondo il negativo, il lutto, ecc. A fronte di ciò la Dott. Calvosa rilancia con il pensiero di Green, in modo da permettere un’ulteriore complessizzazione delle questioni e un ritorno a mio avviso alla valorizzazione della dimensione metapsicologica, già forte in Winnicott anche se talvolta, forse anche a causa della sua scrittura paradossale, non viene subito, o da tutti, riconosciuto in questo.

 

La funzione attiva del padre

È forse utile ricordare come Winnicott sottolineasse l'importanza della funzione attiva del padre al cospetto dell'unità madre-bambino. Su questa falsa riga Balsamo, in occasione di un precedente incontro[3] del ciclo dedicato a Winnicott, ci ricorda un passo dell’Autore inglese: «In questa questione della maternità e dell’allattamento [la madre] viene molto aiutata dall’esperienza della potenza genitale del proprio compagno. In un modo o nell’altro riesce ad essere pronta con un eccitamento potenziale che alla fine si risolve nel dare il latte»[4], una prospettiva tutt’altro che duale insomma. Il ruolo paterno diviene quello di mediatore, in grado di fornire all'infante la possibilità della separazione da una relazione simbiotica e di forte intensità e la sua funzione è quella di introdurre nella diade la differenza, testimoniando e garantendo l'esperienza dell'altro. Traghettando il bambino verso l'esterno, come il logos che ordina e orienta[5], crea uno spazio “tra” le cose, facilitando il costituirsi dello spazio intermedio, felice e feconda intuizione winnicottiana. Ma non solo, introduce in tale spazio anche una funzione terza di potenzialità genitale che suggerisce una specificità forse caduta oltreoceano troppo spesso nell’ombra.

 

Il contesto nordamericano

Conosco abbastanza bene gli autori nordamericani, avendo letto, senza esagerazioni, qualunque cosa esistesse in letteratura nel periodo di poderoso studio leopardiano “matto e disperatissimo” della mia tesi di laurea[6], e posso dire che ci sia stato un evidente tentativo di rimaneggiamento dei fondamenti freudiani in favore di una psicoanalisi votata al qui ed ora e ad una sempre maggiore partecipazione attiva dell’analista alla relazione. Tale movimento è stato molto discusso durante gli anni novanta, e si è caratterizzato dei contributi delle correnti radicali degli interpersonalisti (Sullivan, ecc), degli interazionisti (Stolorow, Atwood, Orange, Beebe e Lachmann, ecc) o dei costruttivisti[7] (Gill, Aron, ecc), oppure degli sostenitori dell’infant research (Stern), o di autori comunque più attenti al rispetto delle psicoanalisi freudiana (come ad esempio S. Mitchell, M.N. Eagle e, non ultimo, il Bion del periodo di Los Angeles dal 1968), e così via in una “costellazione post-moderna” troppo complessa e caratterizzata da differenze interne, ovviamente non riassumibile in questo scritto, ma per la quale tendenzialmente l’edipo o la regressione o, generalizzando molto, l’intero intrapsichico, rappresentano dei soggetti non pervenuti (o quasi) nei loro resoconti clinici e teorici. In poche parole, i postmoderni si oppongono all’accettazione acritica del fondazionalismo filosofico, all’eredità illuministica con il suo accento sulla ragione e sulla razionalità, e ai presupposti metodologici della scienza moderna. Nel mondo postmoderno la teoria non viene più pensata innocente o distaccata, e la verità non viene concepita neutra o oggettiva ma: «è prospettivista, pluralista, frammentata, discontinua, caleidoscopica e in continuo mutamento» (Aron 1996)[8], nonché, mi limito ad aggiungere: «con una particolare attenzione verso il caos» (Turillazzi Manfredi, Ponsi 1999)[9].

 

“Tra” Ogden e Winnicott

In tale panorama Ogden mantiene, tutto sommato, un’impronta ben radicata sul modello freudiano (e per quanto qui ci interessa, soprattutto quello winnicottiano), anche se forse in ombra rispetto all’entusiasmo che pone su questioni intersoggettuali, enfatizzando la partecipazione dell’analista, oltre che le teorizzazioni sul terzo analitico. Io credo che semmai il “rischio” citato dalla Dott.ssa Calvosa, attenga forse più agli effetti del suo pensiero, di caratura e diffusione oramai mondiale. Mi riferisco alla responsabilità che Autori di tale livello inevitabilmente conquistano e che attiene all’influenza che esercitano i loro scritti, soprattutto io credo verso chi è più giovane e in formazione. È possibile che di fronte alla complessità che il nostro lavoro impone ci si possa aggrappare a quei due o tre concetti più fruibili, meno affini all’angoscia di castrazione o a movimenti regressivi, dove la metapsicologia viene semplificata, ridotta, ho sentito proporla come ibrida (insomma come fa la Toyota!), se non pienamente evitata, come molti autori americani propongono. L’impressione è anche che ci si confonda molto sulla metapsicologia, come se non la si fosse capita, intesa invece al pari di una dottrina ideologizzata o una fede a cui aderire, quasi fosse il rappresentante dell’ortodossia e l’ultimo baluardo a sua difesa, quando è proprio e prima di tutto un fantasticare, speculare, possibilità di ripensare la teoria stessa. Tutt’altro insomma. Forse si potrebbe dire che quel “tra” che ho voluto sottolineare già nel titolo del lavoro, riprendendo l’intento della Catarci di mettere in luce la “dialettica tra” il pensiero degli autori sulla scia dello spazio intermedio, o ancora lo stesso “tra” ripreso nel testo di Calvosa che troviamo in Pontalis[10] come “quel regno del tra due”, ecco possa esso essere pensato anche come una distinzione tra il fantasma e il concetto, auspicabile per il soggetto teorizzante in preda alla strega, pena il rischio di piegarsi in una rêverie delirante e trasformando la conoscenza in dottrina autoreferenziale[11]. Fédida[12] osservava che una plausibile differenza tra la dottrina e la teoria è quella proposta da Granoff[13], secondo cui «la dottrina è l'ossatura del mito che dice la difficoltà del destino [mentre] la teoria costruisce lo sforzo per risolverla, ma anche per appianarla, eroderla, usarla». A tal proposito troviamo una considerazione come sempre lucida e profonda in Aulagnier, che ci riporta, si potrebbe dire, coi piedi per terra, quando scrive con formidabile onestà intellettuale: «mentre crediamo in tutta buona fede che le domande di volta in volta privilegiate dal nostro procedimento teorico dipendano dall'importanza assunta da un certo fenomeno clinico, da una nuova lettura, in realtà non facciamo altro che riprendere, sotto altre forme, quelle che chiamerei le 'questioni fondamentali' proprie di ogni analista»[14].

 

Ogden e il contemporaneo

Va dato merito ad Ogden di ricercare la contemporaneità nel suo pensiero, senza farsi affascinare troppo dal mito del progresso (che esiste da tempi immemori) o dai fenomeni legati all’attualità e dalla conseguente tentazione di farne la cronaca, dalle derive psicosociali-educative, dal simultaneo, dalla moda in hype dei divulgatori, mantenendo invece uno sguardo attento ai cambiamenti della teoria che abbiamo visto essere fondamentali nella storia della psicoanalisi per rendere viva la disciplina, sempre più capace di abbracciare complessità maggiori . È sempre bene ricordare come solo oggi possiamo trattare in analisi adolescenti o bambini, lavorare con i gruppi e nelle istituzioni, comprendere meglio i casi limite e le psicosi, e così via. Per dirla con Agamben: «Può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia abbagliare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra […] Caratterizzato, perciò, da una forte componente anacronistica»[15]. La posizione del contemporaneo non coincide esattamente con il suo tempo, non aderisce all’hype, se lo fa ne viene scimmiottato, cade goffo come “L’albatros con le sue ali da gigante” (Baudelaire), non effettua una cesura o peggio una rottura carica di relativismo assoluto e onnipotente manipolazione, cioè di fatto un’altra ideologia, uno slogan che dice di non fare slogan. Essere contemporanei significa, in questo senso, tornare ad un presente in cui non siamo mai stati (Agamben 2008). I continui riferimenti di Ogden a Winnicott va forse detto, sono anche figli della dimensione atemporale, oserei dire eterna, di molte considerazioni dei grandi della psicoanalisi, cosa che facilita il lavoro di ripensamento dell’autore americano. Quante volte leggendo Freud o Winnicott, per non parlare di molti autori della letteratura, dei poeti, siamo rimasti sorpresi dalla loro dimensione senza tempo?  Sono Autori capaci di far parlare l’inconscio sapendolo ascoltare.

Ogden propone nell’uso che fa di Winnicott una “impresa continua”, cercando, come ci ricorda Catarci, di organizzare la sua scrittura secondo la logica del paradosso che diventa modalità di comunicazione, sovversiva rispetto alle logiche lineari e al comune ordine del pensiero. In entrambi gli Autori possiamo rintracciare quella capacità di trasmettere dei contenuti inconsci, imprevedibili ed efficaci, che ci arrivano potenti non tanto come costruzione intellettuale che si pone come abito elegante addosso alle questioni affrontate, piuttosto come frutto di una grande sensibilità ed esperienza clinica. Scrive Ogden che Winnicott usa il linguaggio per far nascere nella lettura esperienze che restino inseparabili dalle idee che vuole presentare o, più precisamente, le idee che vuole mettere in gioco[16].

 

L’esperienza del gioco generativo

Facendo ora un salto spaziale e temporale verso le esperienze cliniche, ci tenevo a sottolineare la generosità del contributo puntuale della Catarci con il suo flash clinico ricco di disegni. Il gioco che nasce tra la coppia al lavoro è notevole e la messa in moto avvenuta grazie alla generosa partecipazione dell’analista disegnatore, fa si che l’avvio di una tensione differenziante si sia potuta sviluppare, mi è sembrato per esempio nella scelta del colore verde scelto inconsapevolmente e diversamente dal bambino che aveva sofferto del morbo blu, non tanto quindi per difendersi dagli aspetti depressivi senza calarsi pienamente nel dolore del paziente, quanto invece per offrirne una risignificazione, una seconda possibilità di elaborazione del trauma: un colore diverso. Sappiamo infatti che “blue” nella cultura anglosassone indica tristezza, malinconia, depressione; si pensi ad esempio al “Blue Monday”. Inoltre, va anche detto che l’analista in quell’occasione, assecondando l’ordine di disegnare del paziente, passaggio che evoca il primo dei dieci comandamenti “Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me”, dimostra anche una notevole capacità di tollerare di essere il bersaglio dell’aggressività del paziente (sullo stile winnicottiano), il quale stavolta ha potuto godere di una risposta adeguata, come quella che riesce a offrire un ambiente capace di rêverie. Ci sarebbe da domandarsi se in scambi come questi il protagonista non sia proprio il grande assente, l’Edipo, il quale secondo un antico adagio il mito sembra trovare le sue origini proprio nella mancanza della rappresentazione. Sto pensando ai livelli plurimi di simbolizzazione, concetto di matrice freudiana (sviluppato poi da Baranés e Green), che possano tenere una eterocronia dei registri psichici (sensoriale, sessuale infantile) secondo un tempo non lineare. Scrive Giuffrida: «Sostengo che in ogni soggetto umano siano all’opera quindi contemporaneamente dinamiche che appartengono all’area edipica e a stadi più primitivi dell’apparato psichico»[17]. Forse ci si può domandare se proprio la struttura inquadrante non costituisca il negativo del mito, grazie alla quale esso riesce a organizzarsi, il padre (funzione) oltre che essere presente anche visto e riconosciuto. Paradossalmente se ne sente ancor più la necessità, comprensibilmente, proprio oggi che sperimentiamo l’esigenza culturale di ripensarlo forse con maggiore complessità. In questo senso sembrerebbe logica conseguenza che la posizione di Ogden di decentralizzazione del soggetto non renda spazio, per quanto si dica, alla centralità dell’Edipo. Come se poi le problematiche legate alle identità cosiddette fluide, il patto parricida dei fratelli, il mito di Dioniso, potessero eludere un confronto con il terzo, quando, ad esempio e in due parole, le prime si organizzano attorno a un movimento politico gender di ribellione, i secondi (il rizoma se vogliamo) una volta al potere soffriranno di nostalgia del padre, Dioniso era il figlio di Zeus. Mi sembra che prima di far fuori Edipo, cosa possibile in un futuro che ha bisogno di essere vissuto, bisognerebbe prendersi il tempo e l’umiltà di discuterne approfonditamente. Scrive Giuffrida: «L’edipo, in questa visione, non è un punto di arrivo, bensì rimane l’organizzatore elettivo della vita mentale sia individuale che gruppale. Unisce il biologico al sociale, l’autoconservativo al sessuale: l’ineluttabile gioco conflittuale tra pulsionalità e bisogni»[18].

Tornando all’esperienza clinica concluderei questo mio scritto con una vicenda accaduta qualche anno fa, quando muovevo i miei primi passi verso la professione, che mi pare molto esemplificativa. Mentre incominciavo ad accogliere i miei primi pazienti presso lo studio privato, lavoravo al contempo presso uno studio associato nel quartiere Prati, in un ambiente “per bene” alquanto facoltoso e molto attento alla riservatezza. Mi viene inviata una famiglia che aveva problemi con il figlio preadolescente. La segretaria, ben prima dell’orario concordato in cui li avrei dovuti accogliere, mi sollecita pressata dai genitori in difficoltà nel contenere il figlio, affinché chiamasse il “Professor Pilia”. Avrei già da questa iperbole potuto capire la “sola” (fregatura, per i non romani) rifilatami dal collega inviante, uno talmente bravo da saper curare l’ansia dei pazienti suonando le campane tibetane.

Decido di anticipare di qualche minuto e mentre mi accingo alla sala d’attesa, un ambiente molto curato con poltrone di pelle e lampade di design, sento delle grida e un gran trambusto. Appare davanti ai miei giovani occhi increduli un quadro stupefacente in cui il papà e il figlio si arrotolavano per terra azzuffandosi, devo dire in modo molto coreografico, tanto basta per mettermi in imbarazzo e creare il panico nell’ambiente. Col senno di poi posso sorridere di un altro paziente che non sapendo come raggiungere il medico che lo aveva appena chiamato ha dovuto scavalcare la coppia che lottava sul pavimento. Quello che doveva essere un preadolescente inviatomi era un bambino di nove anni, il quale riesce a divincolarsi dal padre perdendo le scarpe e infilandosi sotto il tavolo. Decido a quel punto di intervenire rinunciando a quel minimo di credibilità e reputazione che avevo cercato di costruirmi in quei mesi, abbassandomi sotto il tavolo e sedendomi in terra di fronte a quel torello incontenibile. Rimasi là sotto per qualche momento scambiando delle parole con lui ma, come non detto, scappò veloce verso il corridoio con le stanze dei medici, proprio dove io temevo andasse perché in esse c’erano dei macchinari molto costosi che non avrei voluto certo ripagare. Senza scoraggiarmi bloccai i genitori che stavano nuovamente reinnescando l’inseguimento e decisi di avventurarmi da solo alla sua ricerca. Dopo qualche vano tentativo lo scovai nascosto dietro a uno paravento separé di una stanza. Là l’intuizione nel commentare il gioco del nascondino, come se tutto ciò a cui avevamo partecipato un attimo prima non fosse accaduto, secondo una logica scissa. Il bambino nascosto, intanto, emette una risata che mi autorizza a osare ad avvicinarlo, proponendogli un giro esplorativo nello studio. Dopo un cauto girovagare passiamo al fianco della sala d’attesa presi per mano e ci dirigiamo nel mio studio, dove disegnerà e parlerà con me per il resto della seduta. Un angelo a fronte del diavoletto conosciuto qualche minuto prima mentre menava il papà.

In questo primo incontro possiamo cogliere alcuni aspetti chiave, il viraggio d’umore troppo improvviso per non far pensare ad una dimensione famigliare psicotica, cosa che si confermerà in seguito, l’incapacità contenitiva dell’ambiente che anzi sembrava nutrirsi ed eccitarsi del corpo a corpo, l’impossibilità per l’Edipo di organizzarsi in maniera funzionale per la psiche, lasciandosi intravedere solo nella sua assenza in favore dell’agito e della pulsionalità senza limite. Ma soprattutto vorrei sottolineare come sia risultato efficace calarsi in una posizione umile, sotto il tavolo, quasi a cogliere il claustro intrauterino protettivo in cui in bambino si era nascosto, così come ha fatto un attimo dopo dietro il separé. Tutto è stato reso possibile per mezzo del gioco del nascondersi e del farsi trovare.

Mi torna in mente un raccontino chassidico[19] attribuibile a Nachman di Breslau[20]:

Il figlio di un re credeva erroneamente di essere un pollo. Si tolse gli abiti e andò a mettersi sotto il tavolo rifiutando ogni sorta di cibo e di aiuto da medici e specialisti. Stava là, da solo a becchettare il suo grano. Questo sin quando un giorno un saggio si presentò dal re e chiese di poter aiutare il figlio. Il re disperato acconsentì e il saggio si tolse gli abiti, strisciò sotto il tavolo e lì si mise a becchettare il grano. Il figlio del re lo guardò con sospetto e chiese: chi sei e cosa fai qui? E il saggio rispose: chi sei tu e che ci fai qui? Io? Io sono un pollo, rispose infuriato il figlio del re. Anch’io sono un pollo disse il saggio con grande calma e i due rimasero sotto il tavolo finché non si abituarono l’uno all’altro. 

 

[1] Freud S. (1907). Il poeta e la fantasia. OSF V. Torino: Boringhieri.

[2] Catarci P. (2025). Coast to coast: Ogden lettore di Winnicott. Letto al CPdR il 4 Giugno 2025.

[3] Matteini C. (2025). Effetto notte. Pontalis lettore di Winnicott. Letto al CPdR il 15.01.2025.

[4] Winnicott D. W. (1989). Sulla natura umana. Torino, Cortina.

[5] Rosenfeld D., Mises R., Rosolato G., Kristeva J., et Al. (1995). La funzione paterna. Roma: Borla.

[6] Pilia S. (2005). Psicoanalisi relazionale. Dalla psicoanalisi del sospetto alla psicoanalisi del dialogo. Tesi di laurea. Relatore Prof. Fabozzi. Sapienza Università di Roma.

[7] Con il passare degli anni in termine “costruttivisti” è stato sempre più spesso usato per annoverare l’intero movimento nord-americano. Il costruttivismo lo troviamo a volte utilizzato in maniera intercambiabile con il prospettivismo, in un eccesso di semplificazione essendo concetti diversi.

[8] Aron L. (1996). Menti che s’incontrano. Milano: Cortina, 2004.

[9] Turillazzi Manfredi S., Ponsi M. (1999). Transfert-controtransfert e intersoggettività. Contrapposizione o convergenza? Rivista di psicoanalisi. XLV, 4.

 

[10] Pontalis J. B. (1977). Tra il sogno e il dolore. Roma: Borla.

[11] Balsamo M. La follia della/nella psicoanalisi. In: Academia.edu

[12] Fédida P. (1978). «Topiques de la théorie». In: L'assenza. Parigi: Gallimard.

[13] Granoff W. (1975). Filiazioni. Parigi: Minuit.

[14] Aulagnier P. (1984). L'apprendista storico e il maestro stregone. Bari-Roma: La Biblioteca, 2002.

[15] Agamben G. (2008). Che cos’è il contemporaneo? Milano: Nottetempo.

[16] Ogden T. H. (2001). Reading Winnicott. Psychoanal. Quarterly. 70, 2.

[17] Giuffrida A. (2024). Edipo e il sessuale interrogato. Letto al gruppo sulla Metapsicologia della SPI.

[18] Ivi

[19] Pilia S. (2010). Forma del pubertario. AeP Adolescenza e Psicoanalisi. V, 1. Roma: Magi.

[20] Nachman di Breslau (1981). La principessa smarrita. Milano: Adelphi.



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