"quando sei adolescente essere socialmente morto ed essere morto è la stessa cosa"
La rassegna Cinemente 2025 giunta ormai alla sua undicesima edizione in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, è intitolata quest’anno “forme della distruttività” e cerca di contattare attraverso l’arte le molte declinazioni della distruttività umana a cui assistiamo sempre più frequentemente nel tempo presente. Il progetto è trainato come di consueto da Fabio Castriota, analista con funzioni di training della nostra Società e del Centro Psicoanalitico di Roma e prevede la proiezione di un film al quale segue la discussione della sala con la regista insieme a due analisti, uno senior e uno junior: per questa serata rispettivamente Alessandro Bruni (CdPR) e Leonardo Spanò (CPdR). L’incontro del ventidue maggio è stata dedicato al tema della violenza, del bullismo, del cyberbullismo, del suicido. Il film scelto per raccontare questi temi è “Il ragazzo dai pantaloni rosa”, tratto da una storia vera, la storia di Andrea Spezzacatena, quindicenne suicidatosi a Roma nel 2012 in seguito ad eventi di bullismo e cyberbullismo a sfondo omofobico. Il film è tratto in origine dal libro di Teresa Manes, madre di Andrea, intitolato “Andrea oltre il pantalone rosa” ma si è avvalso dello studio delle vicende processuali e della relazione diretta, l’incontro, tra la madre di Andrea e la regista Margherita Ferri. La regista, al suo secondo lungometraggio, commenterà a fine serata che il suo intento nel fare questo film è stato quello di raccontare una storia nella convinzione che il racconto delle storie può cambiare la visione, il mondo. Si potrebbe aggiungere, da analisti, che le storie non sono immodificabili e spesso nemmeno sono state scritte, sono ancora materia informe e hanno bisogno dell’incontro con un altro per potersi scrivere o riscrivere, basti pensare al processo di storicizzazione che ogni giorno cerchiamo faticosamente di mettere in atto insieme ai nostri pazienti, processo a cui si è riferito il collega Leonardo Spanò durante il suo intervento. Andiamo però con ordine raccontando alcuni elementi essenziali del film. L'incipit del lungometraggio è rappresentato da alcuni suoni, singhiozzi e pianti, poi un grande urlo "non ce la faccio", è la madre di Andrea, Teresa, interpretata da Claudia Pandolfi, che sta partorendo, poi ancora un grido "sono otto ore che non vuole uscire", infine la nascita e il desiderio immediato di avere Andrea addosso al suo corpo, alla sua pelle. La scena rappresenta tutta l’ambivalenza del parto e della nascita, tra desiderio di trattenere e di espellere. Il film è narrato in prima persona da Andrea che si presenta dicendo che avrebbe avuto ventisette anni “se non mi fossi… vabbè avete capito”, questa scelta della sceneggiatura e della regia in cui Andrea in modo auto canzonatorio dice "avrei" perché "vabbè lo sapete" induce nello spettatore un senso comico che suscitata a sua volta dal tragico, è così che risuona l'ave Maria di Schubert, e si vede Andrea bambino, che racconta che il suo nome suona più leggero del cognome, Spezzacatena, scorrono poi le immagini del matrimonio dei genitori, felici, segue il commento fuori campo "non ricordo quando iniziarono la loro guerra". Un salto di molti anni dopo e Andrea è al pianoforte, suona la canzone che lui e la madre definiscono "nostra", si tratta di “Canta Ancora” di Arisa, la scelta stilistica è ricaduta su un brano che evoca elementi di fusionalità e nostalgia del materno. Questo momento viene interrotto dalla telefonata della scuola, è la preside che riferisce alla madre che Andrea ha vinto una borsa di studio, il momento di giubilo è grande, la madre con i due figli vanno a festeggiare alle giostre, qui Andrea dice che è "il ricordo più bello di tutta la vita, lo sguardo orgoglioso di sua madre". Al ritorno a casa trovano il padre sulla soglia, livido, teso, “dove sei stata?”, è l’inizio dell’ennesimo litigio fra moglie e marito con la madre che suggerisce ad Andrea di andare in camera e mettere un po’ di musica. Il volume del litigio è così alto che la musica non copre più le urla dei genitori: Andrea e il fratello escono di casa rifugiandosi in una libreria vicina. Questo tempo di dolore familiare è alternato nella narrazione ai ricordi gioiosi d’infanzia che sorgevano puntuali ogni anno con la Pasqua passata in Calabria. Andrea dice “credo che se fossi vivo mi trasferirei in Calabria” mentre scorrono le immagini di una famiglia che gode dell'amore l'uno dell'altro, le risate, gli abbracci, la spiaggia, il mare. Il ricordo di quelle Pasque di rinascita familiare.
Tanto basta per raccontare l’inizio del film, questo è il sostrato familiare, il tempo dell’infanzia, il tempo del bambino parlato dai genitori sul quale si impernia la vicenda successiva preadolescente ed adolescente di Andrea che prova a prendere voce. Qui inizia l’epopea di Andrea e la narrazione psicoanalitica che vorrei proporre del film, il suo secondo tempo, quello del corpo pubertario, che incontra e si scontra con i coetanei. Si incontra e si scontra con Cristian, prima rivale per l’accesso al coro giovanile della Chiesa e del Papa, poi compagno bullo delle Scuole Medie, infine compagno amato-odiato, e carnefice, del Liceo. Si incontra e si scontra con Sara, prima amica del cuore, poi fonte di risveglio pulsionale, infine sia attrice che testimone della castrazione. Andrea cerca in Cristian quel doppio gemellare, omosessuale, tipico della preadolescenza e della prima adolescenza alla ricerca di uno specchio, Cristian è il suo idolo, ha un corpo già sviluppato, è sicuro di sé, è inequivocabilmente maschio, amato e popolare fra i compagni di classe e di scuola. Andrea, al tempo delle scuole medie e della preadolescenza, conserverà come una “sacra sindone a quadretti” il foglietto sul quale Cristian gli chiederà “sabato vuoi venire a studiare a casa mia?”. Analogamente Andrea, al tempo dell’adolescenza, dichiarerà che sono bastate quattro parole di Cristian per farlo sentire bene, “Andrea è mio amico”. La pellicola riesce a mettere in tensione dialettica i due poli evolutivi, l’infans e l’adolescens, rappresentati in qualche modo rispettivamente da Andrea e da Cristian, il primo molto bravo a scuola, interessato e ligio alle regole degli adulti, il secondo incurante della scuola, disinteressato, sfrontato e strafottente verso gli adulti. Questa oscillazione si vede molto bene nella scena in cui il professore chiede a Cristian – addormentato in aula – cosa stesse spiegando e questo risponde – svegliatosi di soprassalto ma con la risposta pronta – “lo chieda a Spezzacatena che muore dalla voglia di rispondere”, il professore difende Andrea dicendo che lui studia perché è bravo, e allora Andrea, spinto ad essere visto e a crescere si permette di trasgredire rispondendo “bravo il cazzo”. A questo seguirà una punizione decisa dal padre fatta di privazioni. Si sente insomma che la partita fra Cristian e Andrea è una partita che si gioca sul terreno del crescere, dello slegamento e del rilegamento, tra oggetti primari e gruppo dei pari, sul terreno della costruzione identitaria, della soggettivazione. La partita è così fortemente giocata sulla possibilità di mettere a distanza gli oggetti primari che Andrea rifiuta la collaborazione della madre per sfuggire alla punizione inflitta dal padre: la madre gli aveva proposto di intercedere presso il padre a condizione che Andrea fosse “tornato quello di sempre” – un bambino. La questione adolescente di Andrea si complica perché se da un lato gli investimenti infantili continuano ad esercitare la loro attrattiva dall’altra l’aggressività che desidera prendersi spazio sembra implodere quando i genitori gli comunicano la loro decisione di lasciarsi, Andrea appare sotto scacco, il suo desiderio incestuoso o la sua forza pulsionale è stata così dirompente? Naturalmente si tratta di una lettura suggerita dalla finzione della pellicola, nulla so della vita reale di Andrea, queste proposte si devono all’Andrea così come viene raccontato nel film. Esemplificativo del perturbante pubertario è il momento in cui Andrea, battendo finalmente Cristian in qualche campo, viene ammesso a cantare per il Papa, i genitori ormai separati sono lì, uniti, a restituirgli l’ultimo sguardo benevolente dell’infanzia, ma lui canterà per la prima ed ultima volta per il Papa, la sua voce sta cambiando, sta diventando un adolescente pienamente sessuato e ne è fortemente turbato. Questo corpo nuovo gli permetterà una prestazione eccezionale ad atletica e di essere acclamato da Cristian e il suo gruppo di bulli. Purtroppo a questo punto della storia inizia la discesa più meno meditata da un gruppo di pari che diventa branco e che non accetta le componenti femminili di Andrea, la sua gentilezza, la sua accoglienza, la sua capacità di fare spazio. Naturalmente non sappiamo come sarebbe evoluta l’identità di Andrea né il suo orientamento sessuale: quello che il film racconta è un ragazzo che cerca di lasciare spazio alle sue parti femminili mentre cerca di integrare il nuovo corpo sessuato, maschile. Cristian e il suo branco attenteranno Andrea dopo averlo fatto vestire da prostituta con l’inganno al ballo della scuola: sarà picchiato, deriso, bollato, la scena fotografata e ripresa, pubblicata sui social, su una pagina di derisione a lui dedicata. A questo punto farei mie le parole del collega Spanò che qui reinterpreto liberamente: il cyber bullismo vieta al soggetto il diritto all’oblio, il tempo fermo del trauma si manifesta nella pagina social sempre presente, senza spazio e senza tempo, è lì, condanna all’eterno ritorno dell’uguale. Il film racconta questo momento vissuto da Andrea in modo toccante e puntuale, oscillando fra l’evidenza della necessità del gruppo dei pari per crescere e il trauma sempre presente a cui il branco l’ha condannato, è Andrea a dire: “quando sei adolescente essere socialmente morto ed essere morto è la stessa cosa”. Di qui l’epilogo tragico che è insieme un arresto evolutivo e la decisione di togliersi la vita, Andrea è alle soglie dei quindici anni, deve festeggiare il suo compleanno e chiede alla madre di festeggiarlo alle giostre, in un effetto cinematografico quasi analitico che riporta la fine del film al suo inizio: la madre prova a dire ad Andrea che forse è grande per le giostre e lui risponde che è ancora piccolo. L’infans ha la meglio sull’adolescens, la storia si è fermata. Sarà l’ultimo giorno di vita di Andrea che, voce fuori campo, saluta gli spettatori: “tornare bambino è bello, quando era tutto più semplice, la mia ultima giornata sulla terra è stata serena, dopo tanto tempo ero di nuovo felice”.
La conclusione del film ha visto l’avvicendarsi degli interventi programmati dei colleghi Alessandro Bruni e Leonardo Spanò ed infine della regista Margherita Ferri e del pubblico in sala. Alessandro Bruni ha presentato un’interessante prospettiva, per così dire laterale, al problema del bullismo, incentrando il suo intervento sul tema del male, del malato, della sofferenza, e della sua storia di negazione ed espulsione, dal reale e dallo psichico, che si perpetra attraverso il rito del pharmakos, del capro espiatorio. Suggestivo il percorso che Bruni traccia partendo dall’antica Grecia ad Atene, passando per il Cristianesimo per approdare alla moderna Roma: il pharmakos, un individuo deformato e ben nutrito per anni, viene poi scacciato ed ucciso, con l’obiettivo catartico di proiettare in lui il male della società per poi liberarsene, la sua morte per la salvezza del popolo, in questa chiave viene letto il sacrificio del Cristo come pharmakos, ed infine la constatazione che l’Ama, l’azienda che a Roma si occupa dei rifiuti è la medesima che si occupa della gestione dei cimiteri, la morte come immondezzaio. In tal senso Bruni vuole mostrare come il bullismo appartenga ad una declinazione di questa negazione generale del male e della morte, l’accanimento contro qualcuno che risulta indifeso o stravagante, è il modo che la società ha per depositare in lui le sue parti folli per poi liberarsene magari con la morte. Di altra natura l’intervento di Spanò che si è concentrato innanzitutto sulla pellicola segnalando quanto lo avesse colpito il fatto che nel film è narrata più che altro una storia di vita piuttosto che di morte, sottolineando come questa esplosione di vita sia in presa diretta con l’adolescenza: megalomania, turbamento, rabbia, invidia, gelosia e violenza. Inoltre Spanò cerca di abbordare il film mostrandone la specifica modalità di trattamento di alcuni temi, ad esempio attraverso il biglietto dell'ambivalenza, il film ha una valenza pedagogica in quanto la rifiuta, non c'è giudizio rispetto alle emozioni che vuole trattare, la pellicola non cede al manicheismo di buono o cattivo ma si domanda le ragioni di tutti: in ognuno di noi albergano un Andrea e un Christian, si tratta di farli dialogare internamente. In questa direzione Spanò cita il bel libro di Daniele Giglioli “Critica della vittima”, mostrando come la vittima è una figura in continuo credito con il passato e non ha nessun futuro da costruire: la proposta della psicoanalisi è dunque la cura tanto del carnefice quanto della vittima aldilà di un giudizio cattivo-buono, ciò grazie all’attraversamento dell’estraneo che alberga in se stessi. L’intervento della regista Margherita Ferri cerca di riprendere gli interventi precedenti e di raccogliere una visione integrata: innanzitutto la Ferri conferma che fin dalla sceneggiatura l’idea che ha sostenuto il film era la necessità di raccontare la vita e non la morte di Andrea, un tributo alla sua vita. Tributo che è stato reso possibile, racconta la Ferri, attraverso l’incontro con Teresa Manes: un momento fondamentale della sua vita di regista nel quale Claudia Pandolfi chiede a Teresa “cosa dobbiamo raccontare”, e la madre di Andrea risponde “un film vitale, pieno di vita, come era Andrea”. Questo desiderio di vita è stato un faro che ha orientato tutto il film, dalla sceneggiatura alla regia, agli attori stessi, per questo motivo racconta la regista era terrorizzata dal raccontare una storia che aveva un finale che né lei né lo sceneggiatore potevano cambiare, e questa risposta della madre ha permesso di tollerare la fine. Il pubblico in sala propone due interventi molto diversi, il primo è una domanda-riflessione rispetto alla totale assenza nel film dei docenti, degli adulti, sottolineando come non è pensabile che in una scuola al centro di Roma sia possibile che i docenti non abbiano visto nulla o non si siano resi conto della portata di quello che stava succedendo: a questa domanda la regista risponde che l’assenza della scuola dal film è stata una precisa scelta, voluta fin dall’inizio perché il vertice di narrazione fosse la vita di Andrea e non la sua gogna, sottolinea inoltre che il problema dell’assenza non è solo una scelta stilistica ma anche un problema legato alle vicende stesse, in effetti dallo studio dei dati processuali risulta un’immagine della scuola molto più preoccupata a difendere se stessa dallo scandalo che a mettersi in discussione rispetto al suo ruolo. Il secondo intervento, molto personale, è quello di un uomo che racconta che anche lui è stato vittima di bullismo sottolineando come il problema spesso sia proprio nell’invisibilità con cui accadono questi fenomeni rispetto al mondo degli adulti. Insomma un film, una sala e una discussione che ci invita a riflettere, come adulti, come società civile, come psicoanalisti.