Cultura, cinema e arte

Venere di Botticelli influencer: l’aberrante bellissima - di C. Buoncristiani e T. Romani

La pubblicità “buca” perché è un’interpretazione selvaggia e priva di tatto. Ci mette di fronte a ciò che siamo: telefonino in mano a scattare selfie


Venere di Botticelli influencer: l’aberrante bellissima - di C. Buoncristiani e T. Romani

Era un mondo adulto

Si sbagliava da professionisti

Paolo Conte

 

La Venere influencer è sbagliata, è brutta, è un’operazione di marketing. Siamo sicuri? Perché la Venere influencer non è né brutta né sbagliata… è aberrante. Ti fa arrabbiare. Perché sei tu.

E in quanto aberrante è bellissima.

Certo… non la puoi capire come metafora. Non è un simbolo.

E già sembra di sentire la levata di scudi dei critici: “Siamo poeti, i nani sui giganti, non si direbbe, eppure siam viventi. Metaforiamo, metaforiamo tutto, da non capirci più se c'era un senso sotto”.

Così cantava nel 1997 Roberto Vecchioni ne “La Corrazzata Potëmkin”, tra descrizione ironica di un’intellighenzia orientata a una splendida purezza della parola e la gita scolastica. Il riferimento al film di Sergej Michajlovič Ejzenštejn, ripreso anche ne “Il secondo tragico Fantozzi”, non è assolutamente casuale. Uno dei migliori film del ‘900, capolavoro del cinema muto sovietico, universalmente acclamato su un piano tecnico, influente, potente per la sua capacità di rappresentare simbolicamente la storia di una nazione, facilmente si trasforma nella famigerata locuzione fantozziana che tutti ricordano…Seguono novantadue minuti di applausi.

Destino crudele della rappresentazione, quando è presa fuor di metafora?

A ben vedere le critiche alla Venere influencer sono la voce di quel professore che ti impone la visione del film in bianco e nero. Vuole fissarti alla dittatura della rappresentazione, insomma, mentre tu vorresti sapere solo se l’Italia ha vinto venti a zero, con Zoff che segna di testa. Cosicché “non hanno scampo le goffe imitazioni di quattro o cinque scribacchini di canzoni: loro non sanno scavare la parola fino a ridurla come un torsolo di mela!”

Seguiamo piuttosto l’indicazione di Vecchioni allora e andiamo giù nella stiva, “tra i topi e l’olio Cuore”. Perché solo lì capiamo la Venere influencer e perché il punto è che non c’è punto, ma linea.

La rappresentazione è possibile grazie al principio di identità, come fondamento della sua possibilità. La differenza e la ripetizione contestano viceversa la legittimità di ogni fondamento. David Lepoujade (2014),  allievo di Gilles Deleuze, chiama movimenti aberranti ciò che avviene attraverso le ripetizioni, come fossero vie di fuga che ci conducono “sotto” la rappresentazione, “nelle profondità del sub-rappresentativo, lì dove la differenza si dispiega liberamente”.

Qualcosa che si ribella all’autorità dello Stesso, al platonismo del mondo delle idee: è il ruolo del simulacro. Il simulacro, non la bella copia, somiglia alla cosa sebbene in modo imperfetto e si costituisce su una disparità interna ed essenziale, una dissimilitudine che lo conduce a contestare il carattere “ben fondato” dell’idea. Stiamo dicendo che il simulacro, movimento aberrante, lascia risalire il fondo… tanto da mostrare che non c’è nessun fondamento.

Dunque “il simulacro è l’aberrazione che mina sotterraneamente il platonismo. Non si lascia rappresentare ed è il solo a incarnare le profondità che si sottomettono all’azione del fondamento e ne contestano l’istaurazione; esso manifesta in tal senso l’esistenza di un nuovo diritto”.

Venere influencer è un simulacro. È Venezia riprodotta a Las Vegas, i visi delle statue classiche truccati alla David Bowie dall’artista contemporaneo Francesco Vezzoli in Vita Dulcis.

Ma perché allora ci colpisce così tanto?

Perché anche se non lo vogliamo, la leggiamo bene. O meglio: forse è lei che legge noi. Così che ogni critica non può che inserirsi nell’ordine di una auto-difesa. Siamo sempre molto legati alla “nostra” rappresentazione.

Venere è invece Rizoma. Non è lo Stato, come modello del pensiero, non è trascendenza dell’idea, interiorità del concetto. Non va colta nel tribunale della Ragione, da funzionari del pensiero, “pretesa dello Stato di essere immagine interiorizzata di un ordine del mondo” (G.Deleuze, F.Guattari, 1980).

La Venere non ci vuole radicare nel Logos, perché è un concatenamento. È una nomade, Venezia-Napoli-Roma. È una molteplicità, che non vuole fare mai uno. Al limite quel pezzo staccato che è il suo viso nomade è un meno uno sull’originale del Botticelli.

È una Venere in fuga, linea di fuga. E non poteva che essere inseguita dai Generali del pensiero che la vogliono fissa. Mentre lei ha per tessuto la congiunzione “e”. Una bicicletta al Colosseo, un pezzo di pizza, il telefonino. “In questa congiunzione c’è abbastanza forza per sradicare il verbo essere”(ibidem).

Cosa tutto questo voglia dire è una domanda veramente inutile. Perché lei, la Venere influencer, non ha fondamento, non ha metodo, non ha funzione pedagogica, simbolica. È decadenza. Si muove tra le cose rovesciando e rovinando l’ontologia.

Stiamo dicendo che ad un certo livello è attraversata da segni eterocliti, frammenti semiotici. Non è “come” la Venere, direbbero Deleuze e Guattari, ma una Venere concreta, su un piano di consistenza, che si fa abolizione di ogni metafora. Sequenze di segni strappati ai loro soliti riferimenti, a quell’ordine di cose che normalmente danno loro un codice di lettura univoco. Potremmo dire che sono sequenze de-codificate, decostruite e che per questo si compenetrano. Ignorando distinzioni di organizzazione e codici. Potresti metterla ovunque e di fatto in rete già abbondano le imitazioni. È virale.

Così va letta la Venere influencer nel suo movimento aberrante. Movimento che ricorda molto da vicino anche la posizione di Jack Halberstam quando teorizza L’arte queer del fallimento, come movimento eccentrico rispetto all’ordine costituito. Ed evoca anche Foucault che “rovinava” l’amicizia cercando non nuovi modelli di legame, ma decostruendo un dispositivo sociale.

Quella Venere rizomatica col telefonino allora coglie nel segno. La Venere “buca”. Buca la rappresentazione, in direzione di un fondamento inesistente: per questo è priva di tatto, condizione di cui parla Freud nel 1910 nel suo scritto sull’interpretazione selvaggia.

Non vogliamo dire che questa operazione sia una regola della comunicazione… o magari sì. Certo il fatto che di quella Venus pudica si parli ovunque dovrebbe farci pensare.

Ma la questione è complessa e non si risolve con il vecchio adagio del “purché se ne parli”. Si risolve invece considerando che la deviazione rispetto alla via riconosciuta, il consistere di elementi eterocliti, il vagare fuori dal codice atteso, farlo anzi fallire, fa saltare ciò che solitamente si copre attraverso i discorsi. “Buca” ciò che ci conforta. Mettendoci di fronte piuttosto a ciò che siamo.

Ed eccolo infine il fondamento svelato. Sollevare il velo qui è equivalente ad un interpretare fuori dal transfert, ci fa male, ma ci fa anche da specchio.

Perché allora quella bella ragazza siamo noi, telefonino in mano, a scattare selfie davanti alla torre Eiffel, al Tāj Maḥal, al campanile di San Marco. E l’aspetto più severo di tutto ciò è che nessuno è escluso.

Qualcuno ce lo doveva pur dire.

Grazie dea dell’amore e della bellezza. È un bene che tu abbia lasciato l’isola di Cipro, la valva della conchiglia, che tu non sia pura e perfetta come la perla che metaforicamente per secoli hai rappresentato, senza Zefiro a muoverti i capelli. Hai perduto gli strati che ti qualificano, passando in una deterritorializzazione assoluta verso un concatenamento produttore di un enunciato selvaggio: una provocazione o qualche altra cosa.

 

 

 



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