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"QUESTO REPORT NON È UN REPORT" di Tommaso Romani.

Riflessioni a partire dalla serata scientifica su “Sensorialità, confusione e origini dell’esperienza psichica”.


"QUESTO REPORT NON È UN REPORT"  di Tommaso Romani.
"Qual è la risposta alla domanda? Il problema."
M. Foucault, Theatrum Philosophicum

In una delle nove conversazioni tra il critico David Sylvester e Francis Bacon, il pittore insiste sulla fortuità del suo gesto artistico. Daniel Farson, raccontando la vita di Bacon, le serate alcoliche a Soho, ne parla in termini di violenta realtà (Francis Bacon. Una vita dorata nei bassifondi, 2011).  Si riferisce poi alla violenza che era nei dettagli del viso, negli occhi, nelle mani come appaiono negli scatti del suo ultimo compagno John Edwards. Come se l’unica possibilità di cogliere il sensibile, di aprire le valvole della sensazione, fosse un “per caso” definitivo, come avrebbe detto Jean-Luc Godard.

Così succede che una pratica eccessivamente cosciente ed intenzionale mancherebbe l’obiettivo, che è quello di catturare ciò che è vitale.

Sempre Bacon era solito dire: “non sto cercando di dire qualcosa, io sto cercando di fare qualcosa”.

Per la nostra pratica, la psicoanalisi, sempre più persuasa che una trasformazione profonda debba “toccare” l’economia libidica del soggetto, la prima a cadere è l’interpretazione. Cosa c’è che non va nell’interpretazione? La possibilità di significare, di attribuire un senso ad un segno, esprime ancora e pur sempre un eccessivo ottimismo. Interpretare, a questo livello, è un movimento che parte dall’illusoria centralità di un soggetto alle prese con un oggetto come preda di conoscenza. Rendere intellegibile un’essenza corre il rischio di dimenticare che oggi è il corpo il centro di indagine da cui partono diversi saperi. Il corpo è il nuovo paradigma per ogni costruzione teorica. Forse andrebbe meglio un farsi interprete?

Rimane tutto da capire cosa si intenda quando si dice corpo. E se disponiamo di un interpretare che tocchi il corpo.

Come se la cava la psicoanalisi alle prese con un “sensibile” irrappresentabile, senza correre il rischio di apporre semplicemente un tappo su quella faglia che fonda le soggettività attuali? L’esplorazione del sensibile mette in crisi una disciplina da sempre fondata sulla parola? Ma è anche vero che da sempre lo sguardo della psicoanalisi è diretto verso ciò che esubera, ciò che viene dal fuori simbolico.

Tale è la posta in gioco e sembrerebbe proprio che l’altra sera Benedetta Guerrini e Chiara Buoncristiani si siano avventurate in un’esplorazione di quel limite. L’occasione è stata la serata organizzata dal CPdR, “Le mie radici, sensorialità, confusione e origini dell’esperienza psichica”.  Entrambe provano a frequentare il confine, attraverso concetti come l’inconscio incarnato o la rappresentazione in azione. È proprio di questo che stiamo parlando.

Il caso presentato da Buoncristiani mette in luce esperienze psichiche in cui il contatto del e col paziente è fortemente connotato dalla frammentazione e dalla confusione, sia relativamente a se stessi che agli oggetti del mondo. Esperienze psichiche, come ha sottolineato Guerrini, che più “sfidano la funzione analitica della mente: fortemente impregnate di una sensorialità intrasformata e apparentemente intrasformabile, frutto di una traumaticità primaria che ha paralizzato le vie della simbolizzazione, reso minacciosi i processi integrativi e ostruito il cammino verso la soggettivazione”. Forse le esperienze di quei “nuovi feriti”, come la filosofa Malabou, citata da Buoncristiani, definisce quei pazienti che a fatica si trascinano un’identità da sopravvissuto.

Il caso presentato è complesso per molte ragioni; per l’eterogeneità delle forme psichiche che l’ascolto dell’analista deve cogliere, per la polisemia delle tracce traumatiche e per i diversi possibili livelli di significato. Del resto, ha sottolineato Guerrini, “l’estensione della pratica clinica psicoanalitica ha reso sempre più ampio il campo di ciò che è psichico: l’evidenza clinica oggi ci mostra come il lavoro della rappresentazione in cui il soggetto deve assegnare un significato all’incontro con il reale sia più ampio di quanto postulato da Freud”. Questo ha spinto la psicoanalisi contemporanea ad andare oltre le colonne d’Ercole dello psichismo simbolizzabile, fino a concepire la psiche come un’organizzazione funzionale con “coesistenti gradienti di funzionalità simbolica, cioè con diverse modalità di elaborazione trasformativa dei suoi contenuti. Per questo oggi molti autori ipotizzano che esistano simultaneamente livelli di funzionamento psichico in cui la ricerca del significato da attribuire all’incontro con il reale va oltre la rappresentazione verbale, fino a livelli “altri” che “elaborano per mezzo del pensiero non verbale e della rappresentazione immaginaria rappresentata (Sapisochin, 2013)”.

Queste considerazioni teorico cliniche possono essere messe in dialogo con alcune svolte nella tradizione filosofica e culturale occidentale, dove il soggetto appare depotenziato nella sua centralità. È frutto di relazioni, di eventi sui quali non ha nessun potere.

Così appaiono talvolta “messe in atto” di una memoria traumatica, che il soggetto non può ricordare. Oppure, come illustrato da Guerrini “pensieri senza ancora un pensatore o tracce pre-simboliche di uno psichismo precocemente deprivato di un altro in grado di significare”. In questo spazio collassato e interdetto alla parola significante, il sapere delle rappresentazioni verbali sembra perdere il suo senso. Per dirlo con le parole di Tiziana Bastianini, ci sono momenti in analisi in cui entrano in gioco “forze psichiche’ […] prive della possibilità di accedere alla rappresentazione ideica e verbale, ma in ogni caso rivelatrici, in una forma embrionale, delle tracce di uno psichismo in cerca di un’esperienza di legame comunicativo con un oggetto trasformativo in grado di raggiungere i confini di tali espressioni” (2021).

C’è una linea che parte da Aristotele e passa da Kant per arrivare fino a noi. Una linea che vede un soggetto posto ad una certa distanza da un oggetto, il quale provocava tutta una serie di sentimenti. Questa linea oggi è parecchio in crisi, sovrastata e poi lasciata indietro dal tramonto dei binarismi, primo fra tutti proprio quello tra mente e corpo, tra soggetto e oggetto.

Ciò che rimane è un soggetto che inaspettatamente produce pensieri come intensità, nella misura in cui è esposto ad un Fuori che possiede caratteristiche violente. L’oggetto, dal canto suo, lungi dal trovare rassicurazioni nella dialettica, si fa sempre più indifferente. Da tempo ormai ha “sputato su Hegel” (C. Lonzi, 1970), abbandonando la dialettica in quanto dentro quel movimento l’unico destino è quello del gioco tra servo e padrone. In definitiva l’unico esito dell’oggetto preso nel movimento dialettico sarebbe diventare soggetto.

E invece, secondo la lezione di Baudrillard, ma anche di Laplanche, l’oggetto è innanzitutto seduzione: un incontro con il reale che è subito iscritto come destino. Inaspettato e non voluto e proprio per questo necessario. Si fa destino in apres coup.

Il soggetto nasce come risposta alla sua stessa fragilità, come ci ricorda Daniela Angelucci nel suo ultimo lavoro (Là fuori, 2023). È un’invenzione, per difendersi dalla seduzione e dal destino. Ma è anche sempre in quella posizione di contatto con le forze della vita, grandezze intensive, il Fuori, l’informe. Tutto ciò che ad un tempo cade fuori dal piano del simbolico ma da esso è anche sempre creato, è l’incontro con ciò che fa problema in quanto inconciliabile.

Il corpo è l’inconciliabile. Una frattura irriducibile, una lacerazione viva e oscura.

Tra clinica e teoria, distinzione sempre più ingenua, è la molteplicità di idee, nella mente dell’analista già piena di teorie, il vero tema da cui prende avvio il dibattito. Ne consegue che non è tanto importante avere una bussola, ma saperci fare con la confusione. Saperci fare con il turbamento.

Il discorso frana e ciò che rimane sono mozziconi di fatti.

Il trauma allora può divenire l’uguale che non si fa mai storia, in una iscrizione di tracce traumatiche sempre polisemiche, sempre complesse. Avere un’altra nozione di oggetto sarà dunque tanto più utile. Non un oggetto preda, ma qualcosa che piuttosto ci cattura. E proprio in quanto siamo andati oltre le colonne d’Ercole della rappresentazione. 

Oggi molti autori guardano in direzione di un contatto con il Reale, lì dove la parola manca. Stiamo parlando di un mondo fatto di scariche motorie? Un mondo pre-simbolico? Come se esistessero tracce che non hanno incontrato l’Altro. Ma in quanto tracce dove potrebbero essersi iscritte se non nell’Altro?

La traccia cerca una relazione come il sensoriale è ciò che rimane in attesa di una elaborazione.

Un’entrata importante a questo discorso è rappresentata dalla memoria, che Freud, fin dal Progetto del 1895, descrive come plastica. Da qui passa il dialogo tra Guerrini e Buoncristiani. C’è una selezione nella memoria, capace di costruire nuovi significati e c’è una retroazione che ne definisce la creatività fondamentale.

Sappiamo da Ricordare, Ripetere, Rielaborare (1914) che la memoria si esprime anche come ripetizione. La ripetizione è un tentativo di trovare identità nella differenza. Ma ripetere l’identico è più nell’ordine della resistenza che della elaborazione?

Qui ci viene in aiuto il lavoro di Buoncristiani, la quale, cercando di mettersi in ascolto della confusione, dell’informe, sembra rendere possibile un pensiero sulle differenze che apra al Nuovo. Ci muoviamo verso le origini dell’esperienza psichica. Il dialogo interroga la psiche più primitiva, il punto da cui trae origine l’esperienza. Siamo sulla superficie di contatto con la madre che produce le prime connessioni.

Ed eccolo ancora l’oggetto, seduttivo e misterioso, che preme lievemente sulla pelle. L’oggetto ha una sua musica, intervalli, pause, variazioni, come ci ricorda Ludovica Grassi nel suo libro (L'incoscio sonoro, 2023). Questo ritmo sembra alludere al concetto di Ritornello che per Felix Guattari (1992) è una sorta di primo codice che delimita un territorio. Un ritornello ha la funzione di alleviare la tensione, il rumore di sottofondo delle nostre case, descritto sia da Grassi che da Guattari.

In quanto, se il confine cade, ciò che rimane è uno spazio caotico che rivela tutta la potenziale violenza dell’oggetto. Il rapporto tra continuo e discreto, oggetto di studio tra gli altri di Anna M. Muratori (1987), allora non segnerà il non essere del bambino, ma il non essere dell’oggetto. Assenza di cui bisognerà pure che dei segni siano rintracciabili, segni che possano alludere all’oggetto perduto. Ogni oggetto allora è un oggetto perduto, ma non deve esserlo troppo, secondo la lezione di Winnicott, per evitare che il destino non si iscriva nella disperazione o nella sua forma bulimica, il che è lo stesso.

Rimane da chiedersi se il “sensoriale” ci aiuti a cogliere quel traumatico che eccede le possibilità della psiche. Se la shakespeariana libbra di carne continui a disegnare un ponte tra carne e simbolo.  Il sensoriale come probabilmente il concetto di rappresentazione in azione, ci piace pensarlo come immagine lacerata, di cui parla Didi-Huberman in “immagini malgrado tutto” (2005). La preposizione “in” non andrebbe allora pensata come moto a luogo. Una rappresentazione che entra in azione oppure una rappresentazione presente nell’azione. Come una casa in campagna. E neanche come complemento di materia. Una rappresentazione fatta di azione.

Ma in un rapporto tra rappresentazione e azione che sia incrociato, per indicare una consistenza specifica. Come quando si dice “in verità”, “in coscienza”, “in Cristo”. L’azione è la lacerazione della rappresentazione e ne rappresenta dunque la verità. Ovvero: qualcosa di eccedente.

Ad esempio ciò che, commentando le immagini fotografiche, Bataille chiamava il “punctum”. Ciò che punge, che tocca nel vivo. O che tocca nel morto per dirla con Pontalis (1977). Un dettaglio fatale o divino, avrebbe detto Miller (2021). Un oggetto parziale, una macchia scura in una fotografia che eccede il livello rappresentativo.

È un dettaglio casuale che nelle immagini fotografiche appare al di là delle intenzioni del fotografo. Un dettaglio da cui emerge una mancanza.

 

Immagine di copertina: "Transita" di L. A.

 



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