La sfida dell’identità di genere

La questione del genere è sempre più sfidante perché ci invita a riflettere sui significati dei percorsi identificativi consci e inconsci che accompagnano l’insediamento della psiche nel corpo. In quale luogo psichico possiamo collocare i fenomeni identitari?

Paola Marion

 

Il tema dell’identità di genere, al centro di un dibattito che coinvolge in modo vivace tanto il mondo della filosofia e della politica quanto quello della cura, rappresenta una sfida per la psicoanalisi, mettendo in discussione alcuni assunti che hanno orientato il nostro pensiero sul tema della sessualità, del genere, dell’identità.  Quando affrontiamo il terreno scivoloso dei temi identitari ci sentiamo stimolati e/o costretti a riflettere anche sul rapporto che esiste, se esiste, tra le condizioni sociali e culturali in cui gli individui sono immersi, lo Zeitgeist, e le forme patologiche prevalenti in cui il disagio si esprime.  E proprio in riferimento allo “spirito del tempo” nel quale ci troviamo, penso che non possiamo sottovalutare come si siano via via sempre più affermati i principi della libertà di scelta e del diritto all’autorealizzazione che si riflettono anche sulla costruzione identitaria di ciascuno di noi. A questo clima hanno contribuito e contribuiscono due fenomeni caratteristici di questi anni. Da una parte il tema della “fluidità” (Baumann), che rappresenta un ingrediente caratteristico della nostra epoca e ha aperto la strada tanto all’immagine di biografie flessibili, aperte al cambiamento, la biografia- fai -da -te, di cui parla Beck (2011), quanto alla personalizzazione del proprio corpo.  Si è affermata, infatti, l’idea di un corpo malleabile, oggetto di manipolazioni, il diritto a trasformare il corpo dato nel corpo che desideriamo, anche al di là della sua collocazione in un continuum temporale.  Dall’altra parte, abbiamo assistito all’affermazione delle biotecnologie e della realtà virtuale, che hanno cambiato la misura secondo la quale alcuni “desideri” trovano la loro realizzazione. Le biotecnologie ci hanno messi di fronte a un rimodellamento del legame con noi stessi e con il nostro corpo, dei legami sociali e relazionali al di fuori del vincolo natura-cultura (Marion, 2017). Questo rimodellamento ha aperto la strada a percorsi esistenziali inimmaginabili fino a poco tempo fa e a un diverso rapporto con la differenza sia in rapporto a noi stessi che agli altri.  A un universo valoriale, sia spirituale che sociale, concepito ancora in termini gerarchici definiti da ruoli, posizioni, all’interno del quale l’individuo è inserito e si esprime, si è sostituito un mondo affrancato da forme e ruoli tradizionali, caratterizzato da scelte e stili di vita fluidi, aperti al cambiamento, e fortemente individualizzati.

All’interno di questo scenario si colloca anche la questione del genere, diventata sempre più rilevante, la quale mette in gioco temi che riguardano il contesto e la costruzione sociale dell’identità e temi, invece, molto più specifici per noi psicoanalisti, che attengono all’esperienza soggettiva di essere nel proprio corpo, al percorso inconscio che accompagna i processi identificativi e al significato che assume in ogni soggetto l’esperienza di genere. I soggetti che denunciano problemi di incongruenza tra il loro genere, i caratteri biologici del loro sesso e il sentimento di identità psicologica, anche mediante la richiesta di riassegnazione sessuale, cercano di rispondere a una diversità, a una non corrispondenza ritenuta insostenibile.

Non è qui il caso di fare la storia del problema del genere. Vorrei solo ricordare un passaggio che mi pare fondamentale, e cioè quello tra la definizione di Stoller dell’“identità di genere nucleare” (core gender identity), intesa come struttura molto precoce e immodificabile e la diversa prospettiva introdotta dalla definizione di Di Ceglie di “organizzazione atipica dell’identità di genere”, che tende invece a sottolineare la variabilità e complessità dei percorsi di sviluppo.  L’introduzione di questa espressione è importante perché afferma come la non coincidenza tra realtà esterna del corpo e percezione soggettiva si deve confrontare con la flessibilità e variabilità dei percorsi evolutivi.  E quindi, come in alcuni casi – penso all’adolescenza – possa essere funzionale ad esprimere un disagio che ha che fare con la ridefinizione della propria identità corporea e con il problema dell’integrazione del corpo sessuato.  La definizione di Di Ceglie accoglie un orientamento che si è fatto strada a partire dagli anni 2000 e che sposta l’interpretazione delle problematiche relative all’identità di genere in termini di condizione piuttosto che di disturbo. Condizione fortemente sentita dal soggetto che si vive del genere opposto ai suoi caratteri sessuali. Non è qualcosa che il soggetto desidera, ma uno stato che il soggetto afferma senza discussione o dubbio. Le ragioni di questa condizione, ed è questo un altro elemento di novità rispetto alle impostazioni originarie, vanno ricercate in una causalità multifattoriale: fattori intrapsichci, relazionali, ambientali e biologici (Solms, 2018) possono concorrere a tale stato.  Lo stesso Di Ceglie ci ricorda la necessità di tenere lo sguardo fermo sulla continua e complessa interazione tra fattori interni e fattori esterni, senza escludere la presenza di fattori biologici.  Ognuno di questi meriterebbe un discorso specifico. Ci troviamo, così, di fronte a una questione complessa e l’identità transgender si colloca all’intersezione di processi che sono ambientali, evolutivi, e contemporaneamente attinenti a dinamiche soggettive e intrapsichiche,

Sono queste ultime al centro della nostra attenzione e il nostro focus è rivolto al significato dell’esperienza di non sentirsi nel corpo dato, il corpo della nascita e che ci lega ai nostri genitori, ai significati dei percorsi identificativi consci e inconsci che accompagnano l’insediamento della psiche nel corpo (Winnicott e il lavoro di integrazione tra percezioni interne e realtà esterna, alla funzione psichica che le modificazioni del corpo richieste svolgono. Il corpo, espressione dell’immagine di noi stessi, è al centro della scena.  Attraverso di esso, infatti, ognuno di noi esprime il sentimento della propria coerenza, la quale viene meno nelle persone che si descrivono come transgender.  Si tratta di un vissuto doloroso di non corrispondenza tra il corpo dato e il genere assegnato (sulla base degli attributi sessuali) e la percezione che il soggetto transgender ha di se stesso. Non sempre questa dolorosa frattura si esprime in richieste di modificazioni corporee attraverso interventi chirurgici e di transizione di genere nella speranza di estirpare la sofferenza psichica. Tuttavia la questione resta aperta, perché – al di là di modificazioni possibili o impossibili, solo sognate o realizzate – nel corpo dato è iscritta la storia che parla di noi, del rapporto con chi ci ha fatto nascere, della catena generazionale che ci precede, quindi del nostro collocarci nel tempo. Sono aspetti del problema che non possiamo trascurare nel momento in cui accogliamo la sofferenza di coloro che si rivolgono a noi e li accompagniamo in tragitti molto complessi.  Così come non possiamo trascurare i processi di idealizzazione di cui possono essere investiti alcuni percorsi, che proprio le biotecnologie rendono possibili nella speranza di ovviare una discordanza sentita in modo doloroso, e il cui alto costo rischia di essere sottovalutato. Si tratta di un punto ripreso da Nancy Kulish (2010), la quale molto bene sottolinea come in questi casi l’idealizzazione dell’essere diversi o delle scelte intraprese può rispondere al bisogno di negare la sofferenza provocata dai sentimenti di non integrazione, non corrispondenza, marginalizzazione e rifiuto.

Se siamo tutti d’accordo che il nostro sguardo, intendo di noi psicoanalisti, intorno alle problematiche relative al genere si è venuto progressivamente modificando e complessizzando, in quale direzione volge il cambiamento e la nostra riflessione? L’affermazione di un’identità trans non è più vista esclusivamente in termini di organizzazione difensiva, sintomo di una problematica narcisistica o espressione di una soluzione perversa. E se può esprimere in alcuni casi un percorso di integrazione che non è andato a buon fine o la difficoltà a maneggiare l’alterità contenuta nel nostro corpo così come la bisessualità, tendiamo a pensare che essa esprime una dissonanza che ha radici più profonde e spesso sfida le nostre categorie interpretative.

Secondo la Saketopoulou (2014), questo tipo di fenomeni rappresentano “il tentativo di raggiungere nuove rappresentazioni, di tradurre in modi nuovi uno spiegamento di mutazioni sessuali e di genere prima non rappresentate”.  Una simile impostazione riflette bene l’impronta dei gender studies, che hanno fortemente influenzato un certo tipo di approccio a questi problemi. Si tratta di un modo di guardare ad essi che assume come un diritto indiscutibile le infinite possibilità di dare forma alla propria esistenza. Il genere non normativo è visto come una realtà soggettiva vitale e i problemi e le difficoltà che ne scaturiscono sono la conseguenza dell’esperienza di non essere riconosciuti nel proprio sentimento di dissonanza all’interno delle relazioni primarie.  In questo senso questa autrice introduce il concetto di massive gender trauma per indicare che i problemi e le difficoltà che ne scaturiscono, anche relazionali, sono la conseguenza di questa situazione e non l’origine e il lavoro clinico è rivolto ad aiutare il paziente a fare il lutto tra il corpo della nascita e il sentimento di genere, accoglierne l’angoscia e accompagnarlo nelle richieste che esprime.  Grande attenzione è rivolta ai meccanismi difensivi messi in atto per fronteggiare il trauma che possono distorcere e dominare dall’interno la vita psichica del paziente (Marion, 2017). Anche assumendo questa prospettiva, il lavoro del lutto resta centrale, perché affermare l’immagine che abbiamo di noi, come ci sentiamo in contrasto con quella trasmessa dal corpo dato, rappresenta una sfida con se stessi e con l’altro.  Nonostante gli interventi ormonali e chirurgici, che possono andare anche a buon fine, il nuovo corpo raggiunto non potrà mai cancellare il corpo di prima: riconoscerne la storia è un passaggio centrale che caratterizza il percorso di cambiamento, così come riconoscere che ogni “ricostruzione” e ogni “modifica” non otterranno mai di rendere la disforia non avvenuta (Lemma, 2015; Marion, 2017).

Tra le sfide che queste tematiche sollevano e  propongono alla riflessione psicoanalitica, una  riguarda il “luogo psichico” nel quale possiamo collocare questi fenomeni. Penso alla scena finale del fim The Danish Girl. Lili in uno scenario idilliaco si sente libera come la sua sciarpa fluttuante nell’aria e racconta la fantasia che l’ha accompagnata nel suo drammatico percorso: “I was a bay in my mother’s arms. She looked down at me and called me Lili”.   Si tratta qui dell’immagine di una madre primitiva, totipotente, che nel contatto corporeo trasmette non solo riconoscimento e designazione (quindi una rappresentazione psicologica e sociale), ma anche un piacere, il cui senso in questa fase non è riconosciuto come tale (Marion, 2023). Si tratta di percorsi identificativi e di posizioni psichiche interne, che affondano le loro radici in livelli arcaici dello sviluppo e sui quali il meccanismo dell’“imitazione”, così come è stato individuato da Gaddini, sembra gettare uno sguardo e un ponte.   Affrontiamo così un tema, quello della formazione di un “Io corporeo” sulla base di un percorso di identificazione primaria, che richiederebbe altro spazio e tempo di riflessione per essere dipanato e che per quanto mi riguarda rappresenta una personale materia di riflessione in progress.

 

Bibliografia

Beck, U. (2011). La società del rischio. Verso una seconda modernità. Roma: Carocci.

Lemma, A. (2015). Minding the Body: the body in psychoanalysis and beyond. London: Routledge.

Marion, P. (2017). Il disagio del desiderio. Sessualità e procreazione al tempo delle biotecnologie. Roma: Donzelli.

Marion, P. (2023). Il “teatro dell’impossibile”: una o più sessuaità?”. Relazione presentata al Convegno: “La sessualità umana: perversa, polimorfa, pervasiva”. Centro Napoletano di Psicoanalisi, 28-29 Gennaio, 2023.

Saketopoulou, A. (2014). Mourning the Body as Bedrock: Developmental Consderations in Treating Transexual Patients Analytically. Journal of American Psychoanalytic Association, 62, pp: 773-806.

Solms M. (2018). Fondamenta biologiche del genere. Un equilibrio delicato. Psicoanalisi, 1, pp: 27-43.

           

           

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