Cyborg, l’altro queer...

Qual è il confine tra reale e virtuale? Il corpo, la pulsione, il trans e l’algoritmo. Matrix come mito alla base di nuove negoziazioni tra soggettività e matrice biopsico-sociale.

Chiara Buoncristiani, Tommaso Romani

 

La scelta è cruciale. Neo è davanti a Morpheus e deve scegliere tra pillola rossa e pillola blu. E’ Matrix. Il nostro eroe è nel dilemma, proprio come noi spettatori: pillola blu per dormire e risvegliarsi come dopo un incubo. Film finito prima di cominciare. Pillola rossa per andare verso l’ignoto di una storia che fu, per una generazione, un “sogno che volta pagina” (Quinodoz, 2003). Come mai?

Funzionando come un “mito d’oggi” (Barthes, 1974), l’epopea di Neo-Keanu Reeves portò alla ribalta un discorso visionario. Erano gli anni Novanta e la realtà virtuale era ancora quasi fantascienza, ma Matrix ne mise a fuoco il nucleo problematico. C’era una domanda sui limiti dell’essere umano in quella storia.

Un interrogativo oggi più attuale che mai: se i dispositivi elettronici (Agamben, 2006; Deleuze, 2007; Carmagnola, 2015) permettono un’immersione in un “virtuale” che trasforma radicalmente la realtà delle nostre vite, forse siamo già dentro un viaggio ai confini della realtà? Un’epoca in cui anche i corpi, con le loro passioni, sono bio-tecnologicamente modificabili e “disponibili”?

Sembrerebbe l’inizio di una libertà senza condizioni. Ma Matrix ci mostra che non è così. C’è un prezzo da pagare per illudersi di poter fare “quello ci pare”. In Matrix gli umani sono ormai cervelli in una vasca, macchine desideranti deprivate dei corpi, buone per alimentare con la loro energia gli algoritmi da loro stessi creati.

Neo sceglie di varcare una soglia. Lui unico “eletto” in grado di entrare nel sistema e “curvarlo” (Bourlez, 2022), riprogrammandolo. Chi è dunque Neo? Di cosa soffre? Soprattutto cosa è Neo l’“eletto”? Nelle prime scene lo vediamo perturbato, scosso dalla sua “condanna a prestare ascolto con tutti i sensi” (Bastianini, Guerrini & Ferruta, 2022) e “in tutti i sensi” qualcosa che spinge e che lo spinge oltre il linguaggio dell’algoritmo, verso la ricerca della verità.

Neo è convocato da qualcosa che insiste, ma allo stesso tempo sfugge ed eccede il mondo di Matrix, la sua condizione iniziale è un’esperienza “ineffabile” di mancata corrispondenza tra percezioni dei sensi e realtà interna ed esterna: un buco, qualcosa “fuori posto”, slegato. Chi è Neo rispetto a quella faglia del sistema, che rischia di essere fatta fuori o “tappata”, ma che preme per riscuotere il suo “debito”? Neo si colloca nel “punto” di inserzione della faglia. Nel “punto morto” dell’essere, in termini filosofici. Testimonia di una mancanza insita nella Matrice onnipotente dell’algoritmo.

Neo è un soggetto che agisce, dentro e fuori Matrix, a partire dalla propria divisione, ma è proprio questo che lo rende “un agente provocatore” di possibili crisi e trasformazioni. La storia di Neo ci parla di una interminabile ricerca dell’Altro e della sua verità, indispensabile per collegare esperienza e senso, affetti e rappresentazioni. Neo è come “costretto” sul bordo di essere il soggetto dell’Inconscio. Quando il film pone la questione del virtuale della realtà pone dunque sempre anche la questione del soggetto e del lavoro che questo deve compiere per “farsi”.

Ed è proprio l’agirein di Neo (Freud 1914, Sapisochin 2021) come soggetto diviso a disvelarci la qualità dell’energia che “alimenta” Matrix. Il message in the bottle che affiora sulla spiaggia del mito è che le macchine si nutrono di quella mancanza/eccesso propria dell’umano. La Matrice si alimenta della pulsione diluendola però nel mondo vuoto del desiderio (Lolli, 2022). In questo modo la macchina realizzerebbe il desiderio di un grande Altro che parassita e toglie l’umano dall’umano, la carne dal carnale. 

Ma la pulsione resiste. Pulsione come “spinta irriducibile che mette al lavoro l’umano”, ma pulsione anche “costrutto” (Freud, 1915) che, non a caso, Freud dispone – in modo ambiguo e proprio per questo sintomatico - sulla cerniera tra epistemologia ed ontologia, sulla mai compiuta giunzione corpo-mente, sul confine instabile sé-Altro.

In Matrix l’Altro, la matrice, sembrerebbe colonizzare la materialità e gli affetti del corpo. Fin dal principio uno dei destini della dimensione simbolica è l’essere “un gioco a dadi truccati” (Zupancic, 2018). E infatti la macchina produce la sua realtà “virtuale”, il mondo simbolico, ma in un certo senso produce anche Neo. Neo, il soggetto diviso, non esisterebbe senza lo spazio simbolico.

Insomma, Neo è una “curvatura dello spazio simbolico che prende luogo a partire da qualcosa di addizionale prodotto con l’atto della significazione” (Zizeck, 2006), un “conosciuto non pensato” della Matrice stessa (Bollas, 1989): il messaggio enigmatico proprio dell’umano.

Come ogni immagine onirica, Matrix condensa più significati. A intuirne la polisemia ci aiuta la storia dei suoi autori, i fratelli Wachowsky. Dopo il successo del film, in rapida successione, i due registi hanno fatto entrambi outing rivelandosi al mondo come transessuali. Dopo la transizione di genere sono diventate “sorelle”. Secondo l’interpretazione datane dalla comunità LGBTQ+ la pillola rossa, altro non era se non la pillola di estrogeni, che era infatti rossa, assunta per modificare il corpo di coloro che avevano scelto di trasformare il proprio sesso.

Secondo una lettura dei teorici del genere, Neo ha una “disforia” e Matrix è il binarismo di genere.

Al tempo dell’uscita del film, gli allora “fratelli Wachowsky” non stavano solo rivoluzionando l’immaginario introducendo il tema del cyborg e della realtà virtuale, stavano proponendo un dilemma circa il destino dello psichesoma, delle anime e dei corpi pulsionali: che succede una volta aperti i negoziati su quella Matrice che, anche rinunciando a dire che ci “sovradetermini”, comunque resta la “vasca” in cui siamo immersi?

E qui l’assunzione della pillola acquista tutta la sua forza di passaggio all’atto. Adesso possiamo percepire la Matrice, che prima davamo per “scontata” e “naturale”: ma solo a partire da quell’atto. Oggi ci troviamo in un mondo in cui quelli che sembravano i confini inevitabili della realtà, sono messi in discussione da un’esperienza quotidiana in cui “naturale” e “artificiale” sono categorie socialmente costruite e costantemente rinegoziabili nelle relazioni tra soggetti.

Per Deleuze le rappresentazioni sono mediate, mentre i segni sono diretti. In sostanza Deleuze dice che la rappresentazione è “intermediata” da una convenzione, originata da un Altro bio-psico-sociale, mentre il segno ha un carattere abduttivo, cioè sta nell’area intermedia (Winnicott, 1974; 1995) dell’evocazione poetica; il compito di un pensiero creativo, un po’ come quello di una buona analisi, è quello di «fare dello stesso movimento un’opera, senza interposizione; di sostituire dei segni diretti a rappresentazioni mediate» (Deleuze, 2007).

E dunque… Cosa ne è del gap che, inevitabilmente, si produce nell’incontro del soggetto che sente e che desidera con la Matrice bio-psico-sociale del senso? Come entrano in rotta di collisione le rappresentazioni di Matrix e i segni che invece Neo è costretto a cogliere?

La Matrice non la puoi far fuori. Essa consente al soggetto di poter “dire io sono”. Dentro la Matrice guadagni in termini di senso, se riesci a dimenticarti che qualcosa viene escluso in termini di essere. Se invece ti chiami Neo ti tocca “ascoltare i segni” delle fondamenta virtuali ma anche quelli dell’inconscio. Cioè ti tocca patire. Allora sarai un eletto, o meglio un soggetto diviso, come nella psicoanalisi.

Per statuto, sembra che il “divenire soggetti” di ciascuno nella sua specifica unicità, debba in parte eclissarsi nell’incontro con la Matrice. Qualcosa deve essere tagliato fuori perché possiamo “essere” e “dirci” nel processo semiotico. È il processo della semiosi (Eco, 1975; Peirce, 1958) che lavora per segmentazioni, opposizioni e differenze secondo una dialettica in cui il senso di segno, non rimanda mai direttamente al suo oggetto, significato o “cosa”, ma rimanda a un altro segno.

Si deve arguire, però, che nella storia dei singoli possono esserci stati livelli diversi di “tagli”, più o meno intrusivi, colonizzanti o violenti. A fronte dell’inevitabile faglia, qualcosa cambia se c’è uno sguardo, un ascolto, una forma di attenzione di uno “altro prossimo”, che, per citare De Gregori, fa “dolce anche la pioggia nelle scarpe”.

Al contrario, nel caso di Matrix potremmo fare la fantasia che i due fratelli Wachowsky stessero dando rappresentazione a un aspetto traumatico della loro esperienza in relazione alla brutalità di una Matrice “sorda”, che stabilisce solo legami aleatori “straight” con il singolo. Matrix, dunque, come insieme di condizioni di possibilità, o viceversa di ostruzione, per la costruzione del senso dell’esperienza soggettiva. Dell’incontro/scontro tra le soggettività individuali e la Matrice, il film evoca il vissuto abusante: menti disincarnate, degradate appunto allo stato di cervelli in una vasca, ridotte al rango di “batterie”. Disconnesse dalla verità del proprio corpo pulsionale.

Il corpo pulsionale, gli affetti, l’inconscio profondo, sono fatti di una stoffa che appartiene al continuo; le rappresentazioni, i simboli, il linguaggio sono discreie. Dimensioni irriducibili, ma coesistenti e sempre alla ricerca di connessioni tra loro. Qui ci viene in aiuto Wilma Bucci (1997), quando descrive l’umano fondato, immerso e impregnato non di due ma addirittura di tre dimensioni: quella subsimbolica, quella simbolica non-verbale e simbolica verbale. Il punto è come agire una connessione soggettiva tra esperienza non-verbale – compresa l’esperienza del corpo pulsionale – e quella verbale. Secondo Bucci questa congiunzione può avviene secondo un “processo referenziale”: collegando in condizioni di alta temperatura affettiva, le esperienze sensoriali ed emotive del corpo pulsionale a immagini (rappresentazioni non-verbali) e alle parole. Attenzione, però, non può mai trattarsi di una traduzione straight, semmai dell’emersione di un collegamento (un segno à la Deleuze) che indichi ed evochi.

In sostanza, l’esperienza umana non può essere binaria. Sembrerebbe proprio che zero e uno non possano essere conciliati… mentre il binarismo della guerra tra i generi li assume come codice identitario. Avere o non avere. Zero o Uno. Maschio o femmina.

Matrix, l’abbiamo detto, stava anticipando l’influenza perturbante delle protesi chimiche, chirurgiche e tecnologiche nelle nostre vite. La domanda che si pone alla psicoanalisi è che ne è del corpo? Non il corpo concreto ma di quel corpo pulsionale, un corpo che è “continuo” ma può dirsi solo nel “discreto”. Un corpo a partire dal quale possiamo fondare il senso di noi stessi, la nostra continuità a essere, e che ospita l’equivoco che sempre è l’Inconscio.

Che ne è del limite e della sua funzione? Il capitalismo strizza l’occhio a desideri un tempo devianti…

Si apre qui una nuova area di mobilità per “inventare-ridefinire” relazioni, di potere e cooperazione, che si fondano proprio sulla “performatività”. Non possiamo più considerare “naturale” quel certo limite della realtà dei corpi senza incappare in una serie di paradossi che i teorici queer mettono bene in evidenza. Secondo Butler (2015), è in questo spazio politico che possono inserirsi nuove cornici di pensabilità e dicibilità.  E Matrix è un film totalmente politico, proprio in quanto pone questioni fondamentali.

Oggi i teorici queer non mostrano solo come esistano nuovi nomi per “curvare” la Matrice e i suoi limiti segmentanti. Ci mostrano che il limite è qualcosa di molto profondo che ha a che fare con il rapporto tra l’umano e “quello che non gli cadrà mai dritto”, tra la dimensione del continuo e quella del discreto. E lo mostrano anche e soprattutto quando non ne hanno la minima idea. A testimoniarlo è lo sforzo enorme di questi Autori nella produzione culturale e intellettuale, nelle performance artistiche, nelle lotte dei militanti e nelle politiche riformiste degli omosessuali straight. Questo sforzo è una spinta…a inserirsi nella dialettica del limite indispensabile al riconoscimento reciproco (Benjamin, 2019).

Insomma, resta l’inevitabile necessità di dire e “dirsi”, non ci si ribella a costo zero. Anzi, il limite non si abbatte. E Matrix ne dà una fantascientifica testimonianza. In tal senso è rivelatrice l’ultima scena del film. Sarà pure stato un cattivo analista, ma è dallo psicoterapeuta di Neo che tornano i due eroi prima dei titoli di coda, forse in cerca di un testimone. Matrix non muore ma sembra obbligata a riconoscere il rapporto tra i due.

Sarebbe quindi interessante ipotizzare che la fallacia attribuita a una certa psicoanalisi, fin qui, sia stata quella di dare al limite una concretezza (un certo mito, ritualizzato), là dove il limite è esso stesso mobile e sempre sfuggente. Così intesi, Castrazione ed Edipo non sono che degli epifenomeni di una struttura più profonda, non così facilmente aggirabile tramite l’invenzione di protesi.

Alla domanda se il sesso sia naturale, cromosomico, anatomico o ormonale la psicoanalisi reagisce interessandosi dei corpi pulsionali in quanto emergenti dall’incontro tra il proto-sé e l’oggetto: un “trovato-creato”.  Quindi come la mette la psicoanalisi con i queer? Partendo dal Freud del 1905 si può cogliere l’estrema raffinatezza del queer (Bourlez, 2022). Era successa la stessa cosa quando, nell’universo biologico, arrivò l’ornitorinco a turbare un intero sistema categoriale di comprensione delle differenze animali. Eco parte da questo “caso” in “Kant e l’ornitorinco” interrogandosi su quanto “a priori” siano le categorie che fanno funzionare i sistemi semiotici. Perché ci sia senso, e dunque comunicabilità, un sistema semiotico si fonda infatti su opposizioni e differenze che, inevitabilmente, vanno configurandosi come una struttura grammaticale. Eco trova una soluzione implicita nello scegliere una semiotica del processo anziché del sistema. Anziché fondarsi sulla grammatica, si fonda sul divenire, alla ricerca di un limite che è un idioma da inferire e riconoscere, ogni volta distrutto e rifondato creativamente dal singolo  e unico testo poetico.

Il queer si pone il compito di “Produrre mappe... con cui rappresentare il modo in cui lo Stato non ci permette di nominare le nostre mappe nella loro interezza” (Muñoz, 2022).

E dunque, in ultima analisi, quale questione pone Matrix alla psicoanalisi, agli psicoanalisti, buoni e cattivi, così come ai teorici del gender, più o meno militanti, bizzarri o straight, ai registi, così come agli spettatori che hanno amato e amano l’inquietudine di Neo?

 

Bibliografia

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Bene, C. & Deleuze J., (2002). Sovrapposizioni. Macerata: Quodlibet

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Bastianini, T. & Ferruta, A. (2018). La cura psicoanalitica contemporanea. Roma: Gianni Fioriti Editore

Bastianini, T., Ferruta, A. & Guerrini B. (2022). Ascoltare con tutti i sensi. Estensioni del paradigma dell’ascolto psicoanalitico. Roma: Giovanni Fioriti Editore

Benjamin, J. (2019). Il riconoscimento reciproco. Milano: Raffaello Cortina Editore

Bollas, C. (1989). L’ombra dell’oggetto. Milano: Raffaello Cortina Editore

Bourlez, F. (2022). Queer psicoanalisi. Sesto San Giovanni: Mimesis Edizioni

Bucci, W. (1997). Psicoanalisi e scienza cognitiva. Roma: Giovanni Fioriti Editore

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Carmagnola, F. (2015).  Dispositivo. Da Foucault al gadget. Sesto San Giovanni: Mimesis Edizioni

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Foucault, M. (1988). Tecnologie del sé. Torino: Bollati Boringhieri

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Freud, S. (1915). Pulsioni e loro destini. OSF VIII

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Eco, U. (1978). Trattato di semiotica generale. Milano: Bompiani Editore

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Roussillon, R. (2013). Paradoxes et situations limites de la psychanalyse. Paris: Puf

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Donald, W. (1995). Esplorazioni psicoanalitiche. Milano: Raffaello Cortina Editore

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Zizek, S. (2013). Meno di niente. Milano: Ponte delle grazie

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