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Riflessioni psicoanalitiche su scrittura, cinema e arte. Di fronte alla bellezza e alla perdita – di Paola Golinelli. Recensione di Leonardo Spanò.

Cosa ci insegnano il cinema, la letteratura e l’arte sul tema della bellezza e della perdita? Con la lente di ingrandimento della psicoanalisi, l’autrice analizza il legame tra queste due esperienze fondanti lo psichismo umano, fornendoci una grande lezione di psicoanalisi applicata.


Riflessioni psicoanalitiche su scrittura, cinema e arte. Di fronte alla bellezza e alla perdita – di Paola Golinelli.  Recensione di Leonardo Spanò.

 

Me ne stavo qui con gli occhiali al soffitto

A innamorarmi dei colori delle cose

Ma desiderare non basta

Da così lontano non basta

 

Ivano Fossati, La disciplina della terra.

 

È la melodiosa tinta della bellezza,

sovrapposta alla tenebra e al baglior della pena,

che rendono umana e armoniosa l’impressione.

 

P.B. Shelley, Sulla Medusa di Leonardo da Vinci nella galleria fiorentina.

 

 

Ridere nel pianto.

 

Per ragioni che riguardano le mie passioni profonde sono sempre stato molto attento al dibattito ancora oggi aperto attorno alla così detta psicoanalisi applicata. Per alcuni psicoanalisti attività del tutto surrettizia, derivativa e secondaria, per altri un esercizio di stile e per altri ancora (pochi, si direbbe) un vero modo di intendere il mondo e di provare a leggerlo. In questo senso, ho sempre trovato illuminanti e acute le riflessioni che proponeva Elvio Fachinelli (2009): «Ma proprio la consapevolezza di ciò che è radicalmente nuovo e diverso nell’esperienza analitica – e che per certi versi è anche arcaico – potrebbe dare senso e fecondità a quell’ampia fascia di studi che coinvolge psicoanalisi e arte o letteratura. A condizione però di operare un rovesciamento vero e proprio dell’oggetto di esame. Non più (o non soltanto…) disseminazione dell’analisi negli sconfinati territori della letteratura, dell’arte, della “varia umanità”; ma piuttosto, curiosità, scrutinio retorico, interesse scientifico verso un modo di conversazione conoscitiva che è probabilmente la più significativa innovazione introdotta nel discorso occidentale dopo la “nobile sofistica” di Protagora e Socrate»

Date queste premesse, mi ha autenticamente emozionato questo nuovo libro di Paola Golinelli “Riflessioni psicoanalitiche su scrittura, cinema e arte. Di fronte alla bellezza e alla perdita” (FrancoAngeli, 2021, pp. 134, 20 €). Un libro rigoroso e onestamente aperto, capace di inserirsi in questo dibattito con una grazia pari alla sua incisività, senza bisogno di giustificazioni o di eccessive cornici ma non foss’altro che per il suo stesso contenuto e la sua studiata forma. Un libro profondo, verticale, esigente in termini di teoria e tecnica analitica coniugate però con una dolcissima e tutta umana capacità di esporsi e di parlare in prima persona: squarci tenerissimi e solidità critica nell’estrinsecazione di una passione per il senso, nella pratica sempre al lavoro e sempre sollecitata di una profonda curiosità, in un esercizio di continua interrogazione capace di accogliere di volta in volta ipotesi, intuizioni, imprevisti, suggestioni anche quando provvisorie o frammentarie.

Dunque, che cosa ha da dire lo psicoanalista nei confronti dell’esperienza artistica? Se lo chiede Paola Golinelli in “Riflessioni psicoanalitiche su scrittura, cinema e arte. Di fronte alla bellezza e alla perdita”, volume che costituisce il punto di arrivo di un confronto che la psicoanalista bolognese porta avanti da anni con il mondo dell’arte, e soprattutto con quello del cinema. Riprendendo alcuni temi che già erano stati sviluppati in passato in altre sedi, come nella prima edizione inglese del libro (Routledge, 2021), Lars Von Trier, Pedro Almodovar, Louis Kahn, Spike Jones, Pina Bausch, diventano i nomi propri attraverso cui Golinelli riflette su alcuni dei temi più importanti che hanno attraversato il suo pensiero negli ultimi anni: i fenomeni del lutto, della melanconia, della separazione e della perdita, e della bellezza, unitamente alla passione per cinema e letteratura e scrittura. “Considero i due aspetti dell’incontro/incanto di fronte alla bellezza dell’oggetto e del Sé e della perdita […], come vissuti che si alternano e coesistono nell’esperienza soggettiva.”

Ciò che di più prezioso c’è in questo libro, aldilà dei singoli testi (che ciascun lettore saprà apprezzare mettendo a lavoro anche la sua esperienza di spettatore e di lettore) è la tensione di fondo che lo anima e lo percorre e la postura con cui Golinelli affronta di volta in volta il materiale preso in esame. Con gesto abile e felice la psicoanalista riesce a eludere e a non cedere a un’operazione di “spiegazione” del lavoro dell’artista e di applicazione di categorie interpretative che facciano da didascalia a quello che si vede. Troppo spesso ancora oggi infatti quando uno psicoanalista (o anche un filosofo) si confronta con l’arte, il cinema o la letteratura sembra non riuscire a liberarsi da questo fraintendimento di fondo. È una cattiva abitudine che tuttavia non manca di padri nobili, (tra cui, è bene ricordarlo, lo stesso Freud che in Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci provò a ricostruire i tratti della personalità dell’artista a partire da un’interpretazione della sua opera - anche se a dire il vero fu lui stesso ad ammettere il carattere approssimativo e dimostrativo del suo saggio -. Restano molto illuminanti le pagine impietosamente critiche dedicate a questo tema da Rudolf e Margot Wittkower, nell’ormai classico “Nati sotto Saturno”).

Lo psicoanalista, se è davvero capace di dimostrarsi fedele all’etica di un sapere insostanziale e sottrattivo, e Golinelli tale si dimostra, dovrà invece semplicemente testimoniare del contenuto di verità dell’operazione artistica, senza provare a spiegarla o a “verticalizzarla” verso un contenuto significante. Muoversi lungo la superficie senza trasformare l’artista in un paziente e la sua opera in un sintomo o cedere alla limitatezza che orienta il simbolismo psicoanalitico (Come giustamente ci ricorda Fachinelli, “La legna da ardere non spiega il perché del divampare del fuoco”). 

Golinelli riesce a parlare di sé (commuovendo anche), riesce a parlare di cinema, di letteratura senza mai tradire un vertice rigorosamente analitico scantonando ogni tentazione patobiografica dei materiali che via via va affrontando; dirò di più, specialmente là dove il discorso sembra allontanarsi dai toni del saggio critico “specialistico” (penso alle belle e struggenti ma invero lievi pagine dedicate al padre)  che, proprio lì, appare risplendere maggiormente una profonda, autentica, consapevole voce psicoanalitica.

 

 

Nel prato tra i casermoni popolari, ho visto tre Cinquecento da sfasciare, in fila. Intorno, teli di plastica, ortiche, cartoni, una pozza quasi seccata. Mi sono commosso. Come chi è arrivato fino a dove sente nella materia disordinate forme di sofferenza, forse punitive. Non so ancora quali, ma ci sono. Ed è proprio da idioti chiedersi se della latta scolorata soffra come, o più della pietra? E questa più dell’aria? E quando? E cosa hanno fatto? Non lo so, non ancora. E nemmeno se per la materia soffrire è un bene, o un male. Ma arrivo a chiedermi se il solo domandarlo non è stato uno dei pochi momenti alti della mia vita. In una prospettiva rovesciata e ancora tutta da chiarire, lo è stato. E una volta ho incontrato il sublime. In sofferenza, ma era il sublime. E non l’ho capito. O è stato il sublime a non capire. Troppo tardi per tutti e due. Ci mancherà qualcosa, alla fine.

 

Mario Santagostini, Il libro della lettera arrivata, e mai partita.

 



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