Attualità e nuove sofferenze

L’intelligenza artificiale tra visioni post-umane e riscritture di identità

A Spazio Taverna di Ludovico Pratesi dove capita che opere d’arte ambientali si travestano da terapeuti


L’intelligenza artificiale tra visioni post-umane e riscritture di identità

Di Chiara Buoncristiani e Tommaso Romani

Eliza è l’esplosiva fioraia analfabeta di Mayfair. Quella che Pigmalione trasforma in una sofisticata lady nell’omonima commedia di George Bernard Shaw. Per Eliza è non a caso il nome scelto da Federica Di Pietrantonio per la sua “opera d’arte ambientale”, in questo caso una ri-scrittura contemporanea della prima AI della storia.

Qui comincia già una storia. Eliza è stata in un certo senso la bisnonna delle attuali chatbot. Erano gli anni Sessanta e le AI non avevano Internet; non avevano memoria (né desiderio). Si limitavano ad analizzare il linguaggio naturale con in dote solo un archivio molto limitato, costituito da pochi dati e regole grammaticali. Non avendo accesso al mare del web per dare risposte, il modo più semplice per costruire “un’intelligenza” in Eliza era quello di farla entrare in simbiosi con l’intelligenza umana, facendola rispondere alle domande che le si ponevano con altre domande… Fu così che si pensò di dare ad Eliza il mestiere più “insaturo” di tutti, travestendola da terapeuta (non una psicoanalista ma una terapeuta rogersiana, forse più in linea con l’immaginario degli sperimentatori del tempo). Si trattava solo di un esperimento, di un gioco che aveva il solo obbiettivo di stimolare domande sulle potenzialità delle nuove tecnologie. Niente a che vedere con i tentativi delle chatbot attuali che, a quanto pare, provano già a sfidare i risultati della terapia cognitivo comportamentale.

Ma procediamo con ordine. Che cos’è un’opera d’arte ambientale? Di essa non sarebbe corretto dire che “è stata visitata” ma che ha avuto luogo. Un’opera d’arte ambientale infatti non è un’installazione, né una semplice performance, ma quello che gli artisti contemporanei chiamano “un’esperienza”. Qualcosa che per definizione esiste e può prendere vita solo nell’incontro con lo psichesoma di chi la attraversa, inter-allaciata con l’esperienza che così si produce.

Abbiamo “fatto esperienza” di ELIZA di Federica Di Pietrantonio – ri-edizione appunto dell’AI degli anni Sessanta - a Spazio Taverna, luogo nato da progetto di Ludovico Pratesi. Spazio che non è uno spazio qualunque perché all’interno di Palazzo Taverna, che dal 1400 ha visto passare il mondo. Ma d’altronde uno spazio non è mai uno spazio qualunque. È sempre una condizione di possibilità per un’esperienza. Ludovico Pratesi direbbe per una visione. Dallo spazio (la stanza d’analisi ne è un esempio) sgorgano soggettività. Identità “imperfette” perché sempre in formazione, in quanto esplorare uno spazio, accordarsi con esso, non può che ospitare l’avventura della soggettivazione. Non c’è, infatti, farsi dello spazio che non avvenga all’interno dell’interpretazione del soggetto, nella tensione propria dell’esperienza e del suo dispiegarsi per così dire, nell’epigenesi.

A Spazio Taverna le cose vanno così. C’è un orario e bisogna essere precisi. Ricorda il setting psicoanalitico. Si conosce l’orario ma non cosa succederà all’interno di questo particolare setting. L’arte è a dir poco ovunque... nella fontana disegnata da Antonio Casoni, nel porticato, nella loggia, nei simboli della famiglia Orsini. Ma soprattutto l’arte si fa esperienza in divenire.

Il visitatore aspetta il proprio turno e si intrattiene con Ludovico Pratesi, con Federica Di Pietrantonio, l’artista ospite della serata di cui vi stiamo raccontando, con gli altri avventori. Una regola sola. Chi è in uscita non dovrà dire nulla dell’esperienza appena fatta.
L’artista ha a disposizione dei locali che può gestire liberamente. Non una mostra tradizionale, ma uno spazio che diventa luogo di vita e di esperienza, decostruzione di ogni sapere convenzionale, e sperimentazione di forme e processi. L’impressione è così quella di abbracciare l’informe, fare del form-less, ciò che mette in movimento la forma se solo ci si autorizza all’esperienza. Come se il “less”, meno, applicato alla forma rendesse possibile una sua messa in movimento che prelude all’esperienza.

Si comprende come spazio e identità siano i due vertici entangled – interallacciati - con i quali l’artista di turno è invitato a gioca con i visitatori. Per farlo ciascuno userà una serie di rimandi, di spostamenti metonimici che lo spazio stesso contiene. Le sale che ci accolgono vengono, infatti, ogni volta riscritte da un artista diverso. Scrittura che interpreta l’invito di Ludovico Pratesi. Curatore che a sua volta ha già riscritto l’eredità di quanto un tempo poteva essere letto in quegli stessi ambienti a Palazzo Taverna: stanze negli anni Settanta hanno ospitato gli “Incontri Internazionali d’Arte” promossi da Graziella Lonardi Buontempo.  Pratesi traduce e trascrive il genius loci, già a suo tempo trasformato da Lonardi.

L’opera di Federica Di Pietrantonio (si può ancora parlare di opera?) ci sembra raccolga questo movimento, in un certo senso transferale, e lo faccia proprio. Superata la prima porta ci si ritrova in una sala dove si aspetta il proprio turno. L’esperienza è one to one. Quando si viene chiamati si entra in un piccolo disimpegno nel quale viene offerta una tazza di caffè. Sulla destra un’altra porta, superata la quale si accede in una grande sala. Sembra uno studio con due lunghi tavoli da lavoro, poltrone da ufficio e alcuni computer. Si è invitati a sedersi in una postazione che sembra a tutti gli effetti un luogo di lavoro. Al quale manca giusto la tazza di caffè appoggiata sulla scrivania, accanto al PC. Subito cade l’occhio sui Post-it che ci invitano a cliccare sull’unico file presente sul desktop azzurro.

Per Eliza. Si apre una finestra di conversazione, con colori e caratteri d’antan.
Eliza a quel punto si presenta come terapeuta. Parlare con lei è lasciato alla libera scelta del visitatore. Per la prima volta, creando Eliza, un programmatore sviluppò un'interazione uomo-macchina con l'obiettivo di creare l’illusione di un dialogo uomo-uomo. Eliza è un analizzatore lessicale che simula una conversazione. Non imita affatto un terapeuta, ma da terapeuta gioca a travestirsi. Attenzione, però, Federica Di Pietrantonio ha composto l’archivo della sua riscrittura di Eliza usando le trascrizioni degli interventi di Hans Ulrich Obrist, uno dei più grandi curatori e critici di sempre. Ovvero il database di Eliza si compone di un archivio delle sue conferenze. Qualcuno che per un artista comtemporanea è decisamente un soggetto supposto sapere…

Si è detto che la scelta di parodiare una psicoterapia è legata al problema di non poter dare al programma una vera conoscenza: e la “situazione terapeutica” si prestava al gioco. Eliza come un terapeuta non afferma ma fa rimbalzare domande, rispondendo con altre domande. L’effetto che ne deriva è legato all’attribuzione di senso che scivola come un furetto tra le domande di Eliza.
Ci sembra così di entrare all’interno di queste catene di concatenamenti e di spostamenti veloci.

Ma come scrive Lorena Preta nel suo La brutalità delle cose: “Soltanto l’evenienza di uno sconvolgimento dell’assetto precedente rende possibile una trasformazione e un riassetto su una nuova organizzazione”. E così Palazzo Taverna... al principio abitato dagli Orsini, poi da artisti in visita a Roma. Lo stesso luogo si riorganizza nello Spazio Taverna, attraverso il suo curatore, Pratesi con Leonardi. Il critico Obrist a sua volta si riflette nel curatore, le cui parole entrano nello script di Eliza, che ancora tramite un’artista viene deterritorializzata, post-umanizzata, e si concatena ad una moltitudine di visitatori. In un movimento di andata e ritorno.
Scritture e riscritture del molteplice. Dove il genitivo è sia oggettivo che soggettivo.
E il molteplice, come scrivevano Deleuze e Guattari, si fa. Si fa attraverso un processo di sottrazione (N- 1), un togliere la compiutezza che mette in movimento quello che nasce come fisso, l’identità. Ciò ci sembra ovunque nella visione dell’artista e dello Spazio Taverna.
Se l’icona è una finestra sull’invisibile, sulla metafisica del modello, qui invece giochiamo con immagini in movimento, con dei simulacri.

“Il simulacro non è un’immagine pittorica, che riproduce un prototipo esterno, ma un’immagine effettiva che dissolve l’originale”. (M. Perniola, La società dei simulacri, Bologna, Cappelli, 1983, p. 20 e pp. 128-129). Le varie icone presenti nello Spazio, a partire dal Palazzo stesso, passando per Eliza, l’AI, Obrist, ma anche la tazza di caffè, l’ufficio, il terapeuta, vengono decostruiti da Federica Di Pietrantonio, dislocati, parlati. I codici vengono spostati, sottraendo l’originale e concatenati in un divenire molteplice attraverso i visitatori.

Anche il desiderio di Federica Di Pietrantonio di costituire un archivio di ciò che altrimenti nella rete verrebbe inevitabilmente perso (lost media), desiderio che ritroviamo in altre sue opere come quella attualmente esposta a Spazio In Situ, risente di un processo epigenetico di riscrittura continua. Ri-scrittura che opera sull’originale un “meno 1”, rendendo l’origine mancante e consegnando al futuro la possibilità di riterritorializzarla.

Imparare d’altra parte vuol dire continuare a restare incompiuti.
Come dice il Pigmalione parlando della sua Eliza: “I was quite frightened once or twice because Eliza was doing it so well. You see, lots of the real people can't do it at all: they're such fools that they think style comes by nature to people in their position; and so they never learn”. Sono dei tali folli da pensare che lo stile venga per natura alle persone solo per la posizione che hanno... e così non imparano mai.



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