Cultura, cinema e arte

La vita bugiarda degli adulti. Recensione di Luisa Cerqua

Ci sono menzogne che semplificano la vita così come ci sono verità che la complicano. (Roberto Gervaso)


La vita bugiarda degli adulti. Recensione di Luisa Cerqua

“Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta. La frase fu pronunciata sotto voce…in effetti io non sono niente…solo un garbuglio…un dolore arruffato senza redenzione”. Chi parla è Giovanna (l’esordiente Giordana Marengo), adolescente ribelle, io narrante del romanzo La vita bugiarda degli adulti (Elena Ferrante 2019) e protagonista della miniserie Netflix tratta dal romanzo (2023) ora trasposto in sei puntate televisive, regia di Edoardo de Angelis e team di sceneggiatori della quadrilogia L’amica geniale, guidato dalla stessa Ferrante. L’interpretazione dalla protagonista Giordana Marengo, così come quella della sua antagonista zia Vittoria, l’ottima Valeria Golino, colpiscono per freschezza e corrispondenza ai personaggi del romanzo (2023). E ancora Napoli è il palcoscenico d’elezione di una scrittrice che poco fa sapere di sé aldilà delle straordinarie capacità di raccontare il femminile nelle sue diverse stagioni esistenziali.

La storia si svolge in un arco di vita cruciale per un’adolescente, quello fra i tredici ed i sedici anni; ha un finale aperto, forse preparatorio di ulteriori possibili sviluppi. E’ un “…dolore arruffato senza redenzione…” quello della tredicenne Giovanna, innamorata del padre e alle prese con la separazione e con la de-idealizzazione dei miti infantili. Con l’arrivo del menarca la sessualità ha fatto irruzione nel suo corpo di bambina che si sta trasformando in corpo di donna. Tutto cambia, relazioni affettive e attese degli adulti in primis. Come figlia di genitori progressisti “in teoria” sa tutto del sesso, cos’è e come nascono i bambini, eppure nulla sa delle oscure sensazioni che la invadono da dentro e della spinta magmatica verso qualcosa che sfocia in solitarie manipolazioni di sé o in furtivi sfregamenti con l’amica del cuore. Adesso a
scuola si distrae e il rendimento cala. Giovanna ne è turbata così come i genitori che origlia di soppiatto: “…Giovanna si sta facendo brutta…” - sembra dire l’adorato padre (Alessandro Preziosi) esimio prof. di filosofia di sinistra - “…sta facendo la faccia di Vittoria! Ma che dici? – replica sua madre (Pina Turco) - quella è un mostro”!

Cosa pensano i grandi di lei che cambia? L’apprezzano ancora?

“Avrei dovuto avere una vita felice - pensa Giovanna - e invece stava cominciando un periodo infelice, senza mai la gioia di sentirmi come si erano sentiti e si sentivano loro…un dolore che non voleva cessare e nemmeno attenuarsi …la testa all’improvviso si appannava e l’ossessione ricominciava”. La figlia di due intellettuali post sessantottini della Napoli alta, mette a nudo se stessa ed è pronta a fare altrettanto con le ipocrisie ed i perbenismi di figure genitoriali che vediamo distanti dalle nuove generazioni come dal sacro testo marxista fideisticamente abbracciato in gioventù.

Siamo all’inizio degli anni ’90, gli slanci sessantottini sono ormai sopiti e sta sbocciando una generazione di adolescenti disincantati più che mai bisognosi di “rompere gli idoli”. I ragazzini raccontati dalla Ferrante, cresciuti nella bambagia o nei bassifondi, sembrano impreparati alla vita e ci appaiono disorientati così come quelli di oggi, altrettanto confusi e altrettanto inconsapevolmente crudeli con se stessi, tra di loro e con gli adulti. L’adolescenza è per definizione smarrimento e ricerca di sé, del proprio modo di esistere e di risposte che non abbiano il sapore del già detto o del già fatto da chi li ha preceduti. C’è un bisogno di verità integralista e di bugia pronta a sfociare in cieca contrapposizione ai modelli o in denunzia, in bisogno di scandalizzare attraverso il rifiuto di qualsiasi cosa odori di dogma suggerito: “…perciò imparai a mentire sempre di più ai miei genitori - racconta Giovanna – non avevo la forza di oppormi al loro mondo sempre ben connesso…Mi sentivo una cattiveria dentro che esigeva a tutti i costi di manifestarsi…”

Il confronto con la realtà non corrisponde mai ai vagheggiati ideali e neppure al politically corret così, tanto l’adolescente quanto gli ex adolescenti nostalgici della ‘meglio gioventù’ ormai passata, si ritrovano a impattare malgré soi con la violenza di passioni assai diverse da quelle ideali e alla fine si svela ciò che è nascosto, iniziando dagli amori extraconiugali “opachi come le finestre dei cessi…perché l’amore non è mai pulito”, così come le aspirazioni segrete inconfessabili e impure, in contraddizione con gli ideali astratti. La forza disorganizzante delle pulsioni non fa sconti a nessuno, intellettuali o proletari analfabeti, egualmente illusi di aver trovato una bussola morale nell’intellettualismo politico o nella fede, che sia Festa del Santo o Festa dell’Unità.

La Ferrante articola l’affresco umano iniziato con L’amica geniale senza mai perdere di vista l’evoluzione del femminile e l’ipocrisia sociale che da sempre l’accompagna nel tentativo di soffocare la minacciosa potenza che la caratterizza. Attraverso i passaggi generazionali racconta la lotta per il diritto alla sessualità e all’autoaffermazione, alla dissacrazione di quel potere maschile che la donna sa conferire o cancellare: “I maschi, bene o non bene, basta che li sfiori, e vogliono fottere”. Qui l’età della contestazione femminile sembra abbassarsi al punto che una tredicenne manda in pezzi universi familiari dominati da figure maschili, solo in apparenza attendibili.

L’entrata in scena di zia Vittoria: “spauracchio dell’infanzia…sagoma secca e spiritata…arruffata…in agguato negli angoli quando cala il buio” preannuncia un cambiamento catastrofico. E’ il femminile scatenato quello della sorella paterna reietta e cancellata dall’album di famiglia perché troppo pericolosa. Ma in che modo le somiglia? Forse crescendo sta diventando anche lei ciò che suo padre detesta?

La zia sottoproletaria della Napoli ‘bassa’, la femmina ‘mostro’ da ostracizzare, diventa il movens che scatena in Giovanna un crescente tumulto emozionale e la drammatica uscita dal mondo infantile, dai tabù sessuali rappresentati con la linea di confine tra Vomero e quartieri ‘bassi’: i luoghi sconosciuti dove sembra pulsare la vita istintuale selvaggia che attrae e spaventa ogni adolescente. Sarà un misterioso e
simbolico braccialetto, forse appartenuto alla nonna paterna e da Vittoria donato a Giovanna, l’elemento disvelatore che apre la falla nella facciata familiare perbenista. Valeria Golino, attraverso il personaggio di Vittoria, rappresenta plasticamente la dimensione emotiva oscura ambigua e contraddittoria che ci appartiene e che non vorremmo avere dentro, le spinte distruttive e autodistruttive che non sempre siamo in grado di arginare.

La selvaggia sorella sottoproletaria, polo d’attrazione e tormento di Giovanna è la controfigura non addomesticata del raffinato intellettuale vetero marxista in balia delle pulsioni selvagge. L’istintualità sfrenata che rompe i tabù perbenisti idealizzando il loro opposto è tipica dell’adolescenza, per questo la scombinata ed enfatica parente proletaria capace di rivendicare il diritto di essere contro (soprattutto suo padre) e liberamente aggressiva, ignorante e pronta ad aggredire chi per lei è una minaccia, sovreccita e suggestiona la fantasia di Giovanna alla ricerca del coraggio che occorre per contrattaccare molestie sessuali prepotenza e bullismi maschili. Vittoria ha mostrato a Giovanna la possibilità di essere alla pari del maschio, fuori dalla sottomissione, sboccata e diretta quanto e più di lui, felice di esibire la propria individualità.

Eppure anche Vittoria gioca la sua quota di finzione attraverso l’esibizione di una sessualità esagerata (chiavo ergo donna sum) e di maniera, così come esagerata e di maniera è la sua pseudo fede cattolica (prego ergo giusta sum) intrisa di buonismo ideologico, non distante dai fanatismi politici fraterni. Essere adulti bugiardi, in fondo, serve ad illudersi che una “bella bugia” migliori la vita e il senso di sé, proprio come fanno adolescenti ed eterni adolescenti. Ritorna in mente il celebre aforisma di Anatole France: “Senza menzogne, l’umanità morirebbe di disperazione o di noia”.



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