"Accogliere il vissuto di una donna che vive una relazione violenta è un’esperienza emotivamente densa, che sollecita profondamente il mondo interno di chi ascolta. Quando la narrazione è segnata da un’angoscia estrema – spesso un’angoscia di morte reale oltre che simbolica – si crea un campo emotivo saturo, in cui la violenza non è solo un contenuto raccontato, ma una presenza psichica che attraversa l’incontro e si iscrive nella relazione tra operatrice e donna."
Il movimento femminista degli anni ’70 affonda le sue radici nei gruppi di autocoscienza femminili, i Consciousness Raising Groups, concepiti come spazi di elaborazione collettiva del Sé e di ri-significazione della soggettività femminile. La loro diffusione può essere letta come il risultato delle trasformazioni nei Garanti Metapsichici (Kaës, 2005), istanze profonde che strutturano e regolano il legame sociale. In particolare, il movimento si sviluppa in risposta alla crisi della coppia generativa, alla conseguente marginalizzazione della sessualità procreativa, all’eclissi della funzione simbolica del padre, alla ridefinizione dei ruoli di genere tradizionali.
Inserito nel più ampio contesto dei movimenti antiautoritari del ’68, il femminismo si configura come un attacco radicale alla cultura patriarcale e all’ordine simbolico fondato sul potere paterno. Il rifiuto della dipendenza dall’uomo si traduce nella creazione di gruppi separatisti, spazi in cui il desiderio femminile può articolarsi al di fuori della mediazione maschile e delle dinamiche di assoggettamento tradizionali.
I femminismi hanno riguardato alcune delle esperienze più significative della storia politica culturale e sociale del Novecento in Europa e non solo: è facendo esperienza di uno spazio di cura comune, dove ascoltarsi le une con le altre per non sentirsi più sole, che molte donne hanno costruito la propria indipendenza. Spazi essenziali per radicare la memoria e proiettare nuove prospettive nelle lotte politiche e sociali, strumenti fondamentali per riappropriarsi di una storia collettiva e condivisa. La dimensione gruppale ha offerto alle donne l’opportunità di sospendere le consuete dinamiche relazionali dei contesti misti, aprendo la possibilità di sperimentare forme inedite di legame. Carla Lonzi, a tal proposito scrive: “sono una donna, dunque faccio il femminismo. Non pensavo alle conseguenze, non sono mai stata così su di giri in vita mia, sempre stanca morta e con il cervello che faceva la girandola. Scaricare l’uomo dalle mie spalle, trovarmi con tante possibili amiche, simili, alleate nella stessa barca, con un destino comune, era il massimo della vitalità che avessi raggiunto (…). Ho cominciato a parlare con tante donne e ragazze sconosciute, non avevo più cautela nè ritegno: ogni pensiero esplodeva nel buio con colori meravigliosi e io ne ero la più stupefatta” (p. 168). Lonzi, raccontando di una specie di metamorfosi psichica, propone l’esperienza di un attraversamento del desiderio e di una rifondazione del soggetto femminile fuori dall’ordine simbolico patriarcale. In un clima di fiducia, i confini del Sé si rendevano più permeabili, le difese si attenuavano, favorendo scambi profondi e trasformativi. Le relazioni tra donne non solo ridefinivano l’intimità e la soggettività, ma tracciavano anche nuovi orizzonti di civiltà, dando vita a immaginari e destini condivisi. Le “sorelle” fondano un legame senza trascendenza, dove la differenza tra le generazioni viene a mancare. Nel rapporto con il patriarcato tutte le donne sono sorelle, un legame libidinale che può implicare amore così come odio, rabbia, paura, ira, aggressività e tutti i tipi di affetti negativi, inevitabili quando si entra in relazione con qualsiasi persona.
Come sottolinea Francesca Molfino (2014), questi gruppi si proponevano di trasformare l’esperienza soggettiva in consapevolezza collettiva, generando nuove forme di rappresentazione della realtà e pratiche condivise di esistenza. Proprio l’esperienza del movimento delle donne, i gruppi di autocoscienza e il femminismo, con le sue articolate riflessioni teoriche, hanno contribuito ad affermare che la storia di ogni donna può trasformare le condizioni delle donne nella società, generando cambiamenti che coinvolgono l’intera collettività. Nascono così le prime case rifugio, perché nei gruppi di autocoscienza femminista il fenomeno della violenza in famiglia, da parte dei partner, risultava il dato comune e dominante. Queste prime esperienze hanno rappresentato la possibilità di sovvertire l’ordine preesistente, dato per scontato e immutabile: la natura patriarcale della struttura economica culturale e sociale. Dalla nascita della prima Casa delle donne nel 1989, in meno di un decennio, in Italia, sono nati 70 Centri Antiviolenza (CAV), che non sono solo luoghi di protezione, ma veri e propri spazi di cura, luoghi in cui si costruiscono saperi, progettualità, speranze e competenze. Sono “laboratori sociali” in cui si sperimentano relazioni virtuose e azioni di prevenzione e formazione attraverso interventi locali e territoriali mirati.
All’interno dei centri, attraverso un approccio integrato, i colloqui di accoglienza rappresentano il primo passo: spazi di ascolto in cui raccogliere la storia della donna e co-costruire un percorso personalizzato. La frequenza degli incontri è modulata sulle esigenze della donna e mira alla condivisione dei vissuti, alla rielaborazione di esperienze traumatiche e alla rilettura della violenza in un’ottica di genere. Questo processo aiuta a riconoscere la matrice culturale della violenza, riducendo il senso di colpa e inadeguatezza. Oltre ai colloqui, possono essere attivati interventi di supporto, come accompagnamento ai servizi sociali e sanitari, consulenza legale, orientamento lavorativo e abitativo, sostegno alla genitorialità e supporto psicologico. Ogni decisione – inclusa la denuncia o la separazione – viene sempre presa con il consenso della donna, garantendo il rispetto della sua autodeterminazione.
In questo scritto desideriamo proporre un confronto sullo spazio di ascolto psicologico e sulla supervisione clinica svolti nel Centro Antiviolenza Sara di Pietrantonio a Roma Tre e presso la casa di fuga Amina, con l’intento di avviare una riflessione sul lavoro di rete, spesso complesso e articolato, che coinvolge diversi professionisti e servizi. Questo processo, pur essendo sfidante, è fondamentale per garantire uno spazio di cura adeguato, necessario per l’accoglienza di donne che subiscono violenza. Continua a leggere su MULTIVERSI