di Flavia Salierno.
“Vieni a salvarmi? Ho paura del buio”. Piange al telefono, in un’auto sotto il fuoco durante un attacco a Gaza nel gennaio 2024. È la voce vera di Hind Rajab, bambina di 6 anni, che cerca aiuto attaccata al telefono col servizio di soccorso della Mezzaluna Rossa. Circondata dai cadaveri dei familiari coperti di sangue. “Dormono” , dice la bambina. “Sono tutti morti, tra poco morirò anche io”, dice poi. La realtà è troppo orribile per poter essere compresa da chi ancora non può avere rappresentazione della morte.
Dieci minuti di applausi, alla fine del film, di una platea attonita, immobile, attenta nell’ascoltare le registrazioni (vere) degli scambi disperati tra la piccola palestinese e i soccorritori che cercano tra mille difficoltà di inviare aiuto. Disperandosi nel tentativo di tenerla in vita, e cercando di prendere la sua attenzione dalla devastazione intorno. Il carro armato che ha già ucciso gli zii e i cugini, ora sembra rivolgersi a lei. Rumori di spari e boati, che la piccola ben conosce, perché nata e cresciuta sotto il loro suono. Che cosa ha fatto una bambina che vive questo mondo, da soli sei anni, dalla prospettiva di chi ha ben nota la sensazione di tensione e paura continue? Talmente assuefatta a quelle, da mostrare una apparente disperazione contenuta nel corso della telefonata.
Ci sentiamo tutti colpevoli, e lo siamo anche. Forse dovremmo fare di più, tutti, imponendoci maggiormente sul diniego di un Occidente che sembra dormire di fronte a un genocidio oramai da tutti riconosciuto come tale.
“I felt like she was asking me to rescue her, ha detto Kaouther Ben Hania nell’ascoltare l’audio integrale della telefonata (circa 70 minuti). Sentendosi così sopraffatta dall’urgenza emotiva di raccontare quella voce.
Il film è ambientato interamente all’interno della centrale operativa del servizio di emergenza della Mezzaluna Rossa. Utilizza l’audio autentico della chiamata di Hind come colonna portante. La regista ha scelto di concentrarsi sul silenzio, la burocrazia relativa all’invio degli aiuti, all’emotività e l’attesa, elementi invisibili ma devastanti, per evocare la tragedia in modo rispettoso e potente.
Insieme col produttore, hanno scelto di lavorare velocemente. In linea con l’urgenza che si sente nel dover intervenire, per fermare l’eccidio.
Credo sia stata la conferenza stampa più vissuta e partecipata di tutte, in questa 82esima Mostra del Cinema di Venezia. Oltre all’applauso iniziale rivolto a regista e attori, la commozione aveva la meglio sul silenzio rispettoso del cast e dei giornalisti presentì. Alla domanda rivolta agli attori sul loro vissuto uno dei protagonisti, Motaz Malhees, si commuove dicendo che sentire quelle registrazioni lo ha riportato alla sua infanzia. E a questo hanno tutti aggiunto di non aver recitato, ma raccontato.
“Noi abbiamo avuto bisogno di questo film per tirare fuori le nostre emozioni, non il contrario”. “È stato un dovere stare in questo film” , aggiungono.
Questo Lido è lo stesso che ha visto sfilare il 30 agosto 10000 persone, in una manifestazione animata da un corteo pacifico, promossa da oltre 200 associazioni, tra cui centri sociali, Anpi e movimenti artistici.
Non c’è bisogno, da parte mia, di evitare di toccare lo “spoiler” del film, perché lo abbiamo tutti di fronte ai nostri occhi, come sta andando a finire. Non la pellicola, ma questa realtà. Lo vediamo malgrado la quantità di giornalisti uccisi sul terreno di guerra per tenerceli chiusi.
La voce di Hinde ci serve perché rimanga impressa nella memoria e, la proiezione del film, per farci capire lo stato emotivo che c’è al di là dei lustrini di questa Mostra. “Hinde sa che cosa fare”, dice la madre ai soccorritori nel chiedere loro di fare tutto il resto. Infatti Hinde è rimasta ferma, in macchina, accanto a dei cadaveri. E chiedeva aiuto al telefono. Quello che è successo poi, non è dipeso da lei. Ma dalla lucida follia di altri.