Nel suo testo Per un’epistemologia della pratica[1], Green osservava che al cuore di ogni riflessione relativa al rapporto fra teoria psicoanalitica e conoscenza della realtà si situano due elementi rilevanti: in primis un principio di incertezza che concerne- innanzitutto- la fragilità del rapporto fra ciò che accade in seduta e ciò che di fatto è avvenuto nella storia del soggetto. Come è noto, la questione ha sospinto, storicamente, verso una posizione di indecidibilità che trova già nel sentimento di convinzione della verità un luogo princeps della ricerca freudiana, sentimento che può trovare radicamento sia nella percezione, sia nell’assenza di un riferimento agli organi di senso, mostrando la dimensione complessa, metapsicologicamente parlando, del fatto che esperienze molto diverse fra loro possono condurre al medesimo sentimento di autocomprensione. Come scrivono i Botella, “Se tutti questi processi, ricordo, ricostruzione, esperienza, hanno davvero lo stesso effetto terapeutico di guarigione, non dovremmo supporre, nonostante tutto ciò che li oppone, una qualità comune in grado di spiegare la loro efficacia?”[2]. Oppure il problema si piega verso l’assunzione di un rigetto radicale della verità storica a favore di quella costruita nella stanza d’analisi (si pensi ai lavori di Viderman, Spence e alle correnti narratologiche della psicoanalisi). Come hanno fatto notare ancora i Botella[3], il termine convinzione appare in Freud in due punti chiave della sua opera, nel 1914, a proposito del caso dell’Uomo dei lupi e nel 1937, in Costruzioni in analisi, e pone di fatto il problema della diversa interpretazione del ruolo della rimemorazione in seduta. “Una convinzione provata durante una seduta ha lo stesso valore terapeutico di un ricordo. Freud tocca così i limiti dell’organizzazione psiconevrotica e apre la strada allo studio di ciò che sta oltre la nevrosi, ovvero lo stato limite. Questo ci fa capire perché i due autori contemporanei che hanno maggiormente influenzato la psicoanalisi odierna, Bion e Winnicott, relativizzano entrambi l'importanza del ricordo nelle loro concezioni”[4]. E’ vero tuttavia che in Freud si rivela una necessità a cui egli non intende rinunciare, il ritrovamento cioè della realtà materiale, il che determina un’incertezza relativa allo statuto di questa che possiamo definire su più livelli: epistemica, relativa al modello teorico adoperato; transferale, con i suoi gradi di deformazione dell’esperienza minori o maggiori, laddove trionfa ad esempio una modalità evacuativa della propria realtà psichica; controtransferale, nella sua precipitazione verso un dato o un altro della vicenda che si svolge dinanzi a noi, nell’accoglimento o nel diniego di esso, nella sottovalutazione o sopravvalutazione di un elemento e così via. Dall’altra, l’incertezza appare relativa al lavoro di adeguamento concettuale della teoria alla complessità della clinica, stante lo scarto inevitabile fra le due. Questo stesso principio reintroduce però anche, come è intuitivo, sia il paradosso della modificazione dell’oggetto, nel momento in cui entra in scena l’osservatore, sia il fatto che il rapporto del soggetto alla realtà non è mai, dal punto di vista analitico, solo quello del suo adeguamento ad essa, ma della sua necessaria trasformazione, della presa in considerazione del valore creativo dell’esperienza soggettiva, e di tutto ciò che può favorirla o interdirla. Questo aspetto, come è noto, era già stato posto da Freud quando ad esempio scrive, ne La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi (1924), che: “La nevrosi non rinnega la realtà e semplicemente di essa non vuole sapere nulla; la psicosi invece rinnega la realtà e cerca di rimpiazzarla. Chiamiamo normale o "sano" un comportamento che unisca determinati tratti di entrambe le reazioni, che al pari della nevrosi non rinneghi la realtà, e che però poi, come la psicosi, cerchi di modificarla. Questo comportamento normale e adeguato porta naturalmente a un lavoro di manipolazione esterna sulla realtà e non si accontenta, come la psicosi, di modificazioni interne; non è più un comportamento autoplastico, ma alloplastico” [5]. In sostanza, la sanità non può essere data dal corrispondere in maniera imitativa alla realtà, condizione che si apparenta più alla dimensione di una normalità devitalizzata o a una vera e propria normopatia[6]; anzi presuppone il suo parziale respingimento (dunque non il suo totale rinnegamento psicotico), per poterla modificare, per tradurre, soggettivare ciò che ci delimita, ciò che si offre, ci precede, ci sostiene. La correlazione del principio di piacere a quello di realtà, implica che il primo seleziona, rimuove, nega, accantona, stravolge quella stessa realtà piegandola al desiderio, ma fa appunto di quella realtà un trovato-creato, un dominio intermedio fra ciò che è (in) me e ciò che è fuori di me. In sostanza, il principio di piacere universalizza la dimensione transizionale degli oggetti con cui entriamo in contatto, costruendo una seconda realtà, la realtà vissuta accanto a quella data, una realtà attraversata dal desiderio, mettendo sullo sfondo il suo lato inappropriabile, ostile, discordante. Allo stesso tempo però, questa scomposizione fra la realtà nella sua dimensione inconoscibile e ciò di cui invece riusciamo ad appropriarci, non è solo l’espressione del conflitto nevrotico. Anzi, proprio tenendo conto del rapporto fra la dimensione creativa- che certo può spingersi fino al delirio- e quella dell’adeguamento -che può determinare l’istituzione di un soggetto rigidificato-, entra in scena ulteriormente il principio di incertezza da cui parte Green. Perché, se questo rapporto fra adeguamento e trasformazione è il motore di una soggettività ricca ed interessante, allora necessariamente si realizza quella incertezza epistemica sulla realtà di ciò che è accaduto di cui parlavamo. Ed infatti, come osserva Green, rischiamo di precipitare ora su di un versante ora su di un altro, e come liberazione dalla chiusura teorico-clinica che ne deriverebbe resta per l’appunto, come principio guida, l’assunzione del principio di incertezza come paradigma osservativo-teorizzante di una oscillazione necessaria fra la comprensione del vero e quella della sua istituzione soggettiva. Il che presuppone, allo stesso tempo, che questa incertezza è metodologica, permettendo di istituire in ogni polo del dilemma l’altro a cui esso pure si contrappone, senza che si possa o si debba risolvere nella pura creazione fantasmatica di ciò che si è ascoltato né in quello altrettanto riduttivo della pura realtà fattuale. Soprattutto, questa incertezza è feconda perché crea una tensione fertile fra principio di verità storica, dimensione di (relativo) adeguamento alla traccia e principio di metaforizzazione, ciò che ne determina la sua ricorrente plasmabilità, trasformazione, deformazione, incrocio, facendo di quest’ultimo un principio regolato, ancorato alla forza e non solo al senso (potenzialmente infinito)[7], il che permette di modulare di volta in volta, diversamente, nel corso delle sedute, il grado di rigidità-fedeltà alla traccia, laddove il polo identitario è sottoposto a tensione e il soggetto sembra resistere in quel punto al farsi della storia, per restare iscritto in una versione della medesima, e opporsi ad una sua possibile ripresa interrogativa. Ma non basta, dobbiamo aggiungere. Perché quelle trasformazioni, pur sempre dettate dai bisogni soggettivi, non avvengono a caso e si determinano lungo linee di tensione della realtà medesima, linee conflittuali, punti di angoscia o di sofferenza e rivelano, pertanto, in quelle stesse traiettorie, qualcosa della realtà che si è voluto trascurare, rimuovere, negare, trasformare. In ogni mappa concettuale, in ogni mappa mentale fornita dal soggetto, ritroviamo dunque dimensioni organizzate che tentano di mettere a tacere le discordanze, il rumore di fondo che disturberebbe la spinta coerentizzante che caratterizza ogni attività psichica. Per questo e giustamente, Green osserva che uno dei compiti del lavoro analitico è quello di reimmettere il rumore nell’eccesso di coerentizzazione che definisce un quadro clinico, riaprire le teorie soggettive al loro impensato, sciogliere i nodi agglutinati che imprigionano un affetto, un pensiero, una visione, aprendo a nuove organizzazioni e nuove processualità.
Come egli osserva: “il problema non è solo di creare informazioni partendo dal rumore come modello dell’autoorganizzazione proposta da Atlan... La specificità della nostra pratica è, partendo da un’informazione affidabile e ridondante, di trasformarla in rumore relativo in certi limiti, per una nuova organizzazione mediante un altro e per un altro che in fin dei conti rappresenta un grado di auto-organizzazione più complesso […] questa trasformazione in rumore relativo è un processo di auto-disorganizzazione coperta dal setting. In altri termini, in psicoanalisi l’auto-organizzazione passa per la domanda preliminare di un consenso all’auto-disorganizzazione”[8]. La proposta di Green è ovviamente condivisibile: è ciò che sostanzialmente riscontriamo nella cura classica, dove un discorso, un tessuto di rappresentazioni, una biografia, si presentano a noi in modo da poter essere oggetto di una diversa pensabilità, di quesiti, di un lavoro di ignotizzazione, nel muoversi da dimensioni apparentemente note ad altre in cui si tenta di trovare/costruire interpretazioni differenti, mondi possibili soggiacenti alla sola realtà accettata, aperture di senso in ciò che è stato vissuto e, soprattutto, in ciò che la coppia analitica avrà occasione di vivere. Se si vuole è, nei termini di Laplanche, il passaggio da una traduzione – l’insieme delle operazioni compiute dal soggetto per dare ordine al rapporto fra sé, il suo mondo interno e le relazioni che lo determinano e lo accompagnano-, ad una detraduzione, uno “smantellamento”, una riapertura delle traduzioni operate dal soggetto. Questo processo è ricorsivo, ridondante, autoreplicantesi e, nella cura, si realizza in presenza di un altro che induce, favorisce ed osserva il movimento, reintroducendo nel campo i derivati -ritradotti- di ciò che è vissuto e pensato, a loro volta motore di nuove traduzioni/detraduzioni. Mi pare tuttavia, prendendo in esame la coppia traduzione/detraduzione, che qui occorra correggere Laplanche quando ritiene di poter stabilire “una distinzione netta tra la ricostruzione in analisi (che sarebbe un compito condiviso dall'analizzando e dall’analista) e la costruzione, o la ‘nuova versione’ del sé che può risultare dall’analisi, ma che sarebbe operazione del solo analizzando”, esprimendo, a mio avviso, un’ingenuità teorica[9]. “Dove, infatti, se non in una versione astratta, chiusa in una “teoria personale” della cura analitica, è possibile differenziare così fermamente ciò che appartiene all’uno o all’altro, separare, nella chimera degli inconsci (De M’Uzan), ciò che può essere indicato come il risultato di un’operazione in cui l’altro sarebbe totalmente assente? Per di più, possiamo vedere come questa distinzione sia totalmente inconsistente in tutte le situazioni in cui ci troviamo di fronte a difetti radicali della storia, dell’autobiografia, dove c’è solo silenzio, vuoto, impossibilità di pensare o terrore di esistere. Dove spetta, cioè, all’analista costruire pezzi di storia, versioni di sé che non hanno mai potuto nascere e realizzarsi”[10].
Come ho già fatto notare, il lavoro analitico si può definire come il processo trasformativo grazie al quale un “testo” è sottoposto, grazie al metodo delle libere associazioni, ad un percorso, autorizzato dal soggetto, -ma come sappiamo queste autorizzazioni sono sempre relative-, di disorganizzazione o di auto-disorganizzazione che implica, sottolinea ancora Green, una tolleranza della complessità. La tolleranza non è evidentemente una dimensione statica della vita psichica. Essa implica certo attitudini, soglie oltre le quali il processo è avvertito come destruente o rifiutato, ed altre entro le quali è invece accettabile, ma soprattutto pone una temporalità in cui le sue caratteristiche possono oscillare anche vistosamente, caratterizzandosi in modi molto diversi, sia in base alle fasi dell’esistenza che il soggetto vive, sia in relazione alla disponibilità o meno di un ascolto. Inoltre, come escludere la diversità del suo spessore a seconda delle processualità storiche che precedono o accompagnano quel movimento? Allo stesso tempo, essa allude al senso medesimo del lavoro analitico nel momento in cui questi, favorendo i processi primari, la loro atemporalità, la natura anacronica del desiderio, il riconoscimento di affetti di amore e odio verso gli oggetti edipici, propone un accoglimento diverso dei moti pulsionali, una capacità di sopportare diversamente la frustrazione, di viversi come non autogenerati e, dunque, il riconoscimento degli oggetti da cui dipendiamo o siamo dipesi. Implica la possibilità di accettare di non avere risposte già date ad una questione, il non sapere dove il processo porterà, l’accettazione di una temporalità e di una processualità grazie alla quale realizzare uno spostamento da un funzionamento in scarica (dunque di un tempo immediato di risposta) ad uno di perlaborazione (che implica la possibilità di sostare nel conflitto, o nella sofferenza, in attesa di uno sviluppo non artificioso delle questioni interne al soggetto). Da questo punto di vista penso si possa cogliere in maniera sufficientemente chiara la relazione fra tolleranza e sviluppo della complessità psichica, di un apparato che non funziona nella modalità primaria stimolo-risposta, capace pertanto di rappresentarsi i suoi stessi processi, di rappresentarsi il processo rappresentativo e di poter cogliere, in tal modo, la dimensione storica dell’Io e del suo rapporto col mondo.
La dimensione di complessità definisce, come ha osservato Green, le forme del rapporto fra rumore e processo auto-organizzativo in cui possiamo scorgere come il primo, nella sua qualità di induttore, sia quella fonte eccitante grazie alla quale si mette in moto la dimensione ricorsiva delle dinamiche integrative. Ovviamente possiamo trovarci dinanzi ad una situazione complementare: quella, cioè, in cui c’è un eccesso di rumore che invade la scena e che ostacola la possibilità del tempo auto. Lo vediamo bene nella riflessione posta da Green in merito alla questione dell’allucinazione negativa, cioè della possibilità o meno di mettere l’oggetto sullo sfondo per istituire quello spazio cavo in cui la generatività del soggetto può avvenire. Nel caso di un eccesso di presenza, o di assenza non padroneggiabile, il rumore pulsionale, il rumore degli affetti angosciosi, il rumore che procura il dolore, rendono non assentizzabile l’oggetto di cui non è possibile fare il lutto, ostacolando, per l’appunto, il tempo dell’autoerotismo, del ripiegamento riflessivo, del ritorno su di sé per potersi sentire, provare, percepire. In tal caso, quale storia ne deriverà? Quale narrazione riesce a raccogliere un rumore che sovrasta la voce dell’infans e che ostacola la produzione di senso? In quante vite, ahimè, dobbiamo, seppur malvolentieri riconoscere la verità dei versi del Macbeth? “La vita non è che un’ombra che cammina; un povero attore che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena e del quale poi non si ode più nulla: è una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla” (W. Shakespeare, Macbeth (atto V, scena 5, vv24-28). La non significazione, il vuoto dell’esperienza, il niente del pensiero, la perdita di valore di ciò che si prova o si vive, sono esempi della cancellazione della vita che si trasforma in un’ombra, spesso nelle forme esplorate da Freud già nella dimensione melanconica, ma che nel senso che stiamo tratteggiando va ben oltre la condizione clinica specifica e definisce tutta quella serie di situazioni in cui l’oggetto copre, nasconde, sovrasta, mortifica, colonizza l’Io. Di “rumore” e di “furore” parlava, come si ricorderà, il celebre romanzo di Faulkner, L’urlo e il furore, la cui trama narrativa esordisce, per l’appunto, con la parola di Benjmain Compson, l’idiota, la cui comprensione del mondo è confusa, frammentata, spezzettata. Ovviamente l’idiota delinea molte funzioni[11], e forse in questo può essere pensato, in Faulkner, come il personaggio concettuale descritto da Deleuze e Guattari in Che cos’è la filosofia?[12] Trama, dunque, da poter e dover ricostruire grazie alle altre voci narranti, alla possibilità di istituire uno spazio di ascolto di ciò che non riesce a narrarsi ma senza poter giungere ad un nodo organizzato da poter interrogare, disorganizzare. Non a caso, la questione del nodo assente è stata colta da Sartre, in Che cos’è la letteratura?[13], proprio nel romanzo di Faulkner: “E’ inutile cercare un nodo nell’Urlo e il furore. È la castrazione di Benjy? L’avventura amorosa e miserabile di Caddy? È il suicidio di Quentin? L’odio di Jason per sua nipote? Ogni episodio, quando lo si guarda, s’apre e scopre dentro di sé altri episodi, tutti gli altri episodi. Non avviene nulla, la narrazione non procede”[14]. E ancora: “Tutto avviene fra le quinte: non accade nulla, tutto è già accaduto. Diventa comprensibile così la strana frase di uno dei suoi protagonisti: Ion non sono, ero[…] il presente è solo “un rumore senza legge, un futuro passato”[15]. Riprendiamo la frase di Sartre: “è inutile cercare un nodo”. Possiamo, almeno in via associativa, pensare alla questione del nodo nella teoria lacaniana, cioè all’esigenza di una struttura che tenga insieme i tre registri (simbolico, immaginario e reale) in modo da organizzare il soggetto nel suo va e vieni fra di essi e di come il suo sfilacciamento implichi una catastrofe psichica. Ma più in generale il nodo indica l’organizzazione stessa dell’umano: la sua presenza o assenza pone la possibilità di cogliere o meno una trama nella vita di un soggetto, definisce le coordinate cliniche differenziali fra una biografia e la sua frammentazione. Penso si possa comprendere, in tal senso, il titolo di un lavoro di Marcea Eliade, “Il dio legatore e il simbolismo dei nodi”, che allude da una parte al tessere come attività umana, al legare come espressione di Eros, dall’altra, al nodo come laccio stringente, laccio della morte o della malattia. Nella stessa Poetica di Aristotele, del resto, il mito ha una trama, possiede un nodo da sciogliere per poterne cogliere il senso. Ora, non è difficile, pensando alla nostra clinica, verificare la differenza fra storie, potremmo dire, annodate, storie che “si tengono” e storie sfilacciate o, inversamente, storie in cui il nodo si presenta come maleficio, imbrigliamento, imposizione di reti di sofferenza, come quelle che si stendono sull’esistenza drammatica di Giobbe. Storie, cioè, caratterizzate dall’impossibilità di introdurre un rumore, una differenza, un lavorio degli assunti identificatori patogeni e che spesso si concludono con lo scacco, la fuga, l’interruzione, o la ricattura, da parte del gruppo familiare, di colui o colei che tentava di uscirne. Storie troppo annodate, potremmo dire, o mortalmente restie a che nuovi nodi si aggiungano, o si propongano al posto di quelli esistenti.
Ci si può chiedere, pensando a Faulkner, a quale necessità risponda l’esigenza di una storia talmente spezzettata che per costituirsi necessita della composizione e del rinvio fra di essi, dei differenti personaggi per poter cercare di descriverla. Potremmo pensare, qui, per analogia, alla molteplicità delle storie o delle loro versioni nel tentativo di tratteggiare quella impossibile da pensare di Philippe, il paziente psicotico della Aulagnier, descritto in L’apprendista storico e il maestro stregone, e che ha come sottotitolo della prima parte, non a caso, “Delle storie piene di silenzio e di furore”, allusione evidente, nel contrasto fra il rumore di Faulkner e il silenzio di Philippe, all’assenza di storia di Philippe. Per questo motivo, ed in maniera interessante, l’Aulagnier scrive che per tratteggiare il caso si muoverà fra quattro storie o, meglio, quattro versioni di essa:
- “quella di Philippe, che ne è il protagonista e l’autore. Una versione che ricostruisce una storia conforme ad una causalità delirante”
- “quella che mi forniscono i genitori”
- “la mia versione, che si elabora e si modifica durante l’ascolto”
- “infine la quarta versione, appena abbozzata: quella che Philipp ed io cominciamo a scrivere insieme”[16].
Questa apparente divagazione sulla molteplicità delle storie necessarie al ritrovamento di una versione soggettiva, tale da essere lavorabile dal metodo analitico, presuppone, come è evidente, una differenza di fondo con la questione posta da Green, relativa alla dimensione auto-disorganizzativa dello psichico nella cura. Qui ci troviamo invece in un eccesso di rumore e all’impossibilità di usarlo per sciogliere fili troppo stringenti, legami associativi troppo rigidi oppure assenze talmente destruenti che il nostro scopo, più che introdurre rumore, è quello di provare a creare un minimo di organizzazione in una struttura caotica. Potremmo dire che là dove difetta l’organizzatore edipico, là dove si pone una difficoltà a vivere e tollerare uno scenario fantasmatico, capace di interporre il campo del desiderio e della possibilità di appropriarsi della realtà vissuta nei termini che sono disponibili al soggetto, vi è un eccesso di azioni, di rumore, di confusione. Potremmo anche dire che differentemente dalla posizione più fisiologica, in cui all’infans giungono dei messaggi enigmatici, caratterizzati cioè dalla compromissione dell’inconscio nelle comunicazioni poste dall’adulto, qui, invece è l’enigma che difetta nel suo costituirsi. L’enigma come motore del senso, come residuo energetico capace di attivare legami e curiosità epistemica. Come ha osservato J. Press[17], “l’enigmatico ha uno statuto complesso nell’organizzazione psichica e psicosomatica dell’essere umano. Sia potenzialmente presente nei dati strutturali, nelle condizioni di avvento e di crescita dell’essere umano, e dovendo essere creato dal soggetto, attraverso la qualità dei suoi legami ai suoi primi oggetti e al modo in cui si distaccherà da essi, per seguire un cammino che sia il suo pur iscrivendolo in una linea”[18]. Ovviamente questa dimensione può realizzarsi solo nello scambio con un altro disponibile a raccogliere, pensare, interpretare, ritradurre ciò che proviene dall’infans, oppure, ed è il caso che contrasta ogni possibilità di strutturazione dell’enigmatico, ci troviamo dinanzi al suo fallimento, alla sua assenza che conduce alla possibilità di una estinzione del pulsionale, intesa come una forma estrema di difesa da un eccesso altrimenti frammentante, disorganizzante. Abbiamo dunque due condizioni possibili: da una parte un silenzio relativo, quello che deriva da un buon funzionamento psichico, in cui i sintomi sono, più che discrepanze massicce in un’organizzazione stabile, delle traiettorie di senso, rimosso, eventualmente negato, ma comunque articolato in una modalità già trattata dal soggetto come un senso possibile, anche se non accettabile, in cui introdurre discordanze. Dall’altra, un rumore eccessivo a cui storicamente si è risposto in una modalità difensiva che ha cercato di proteggersi nei vari tentativi di negativizzazione, o di mettere a tacere quel rumore, estinguendo eventualmente il pulsionale medesimo. Appare certo interessante ricordare ciò che Canguilhem dice della salute: “La salute, è la vita nel silenzio degli organi”. Ora, si potrebbe pensare, seguendo alcune osservazioni di Michel Fain[19] , che “il silenzio rassicurante del corpo è l’erede diretto del contenimento sufficientemente buono dell’infanzia che, in silenzio, e teneramente, assicurava un ben-essere all’infans senza nuocere alla sua potenzialità di sviluppo”[20]. Per D. Cupa, “il silenzio rassicurante del corpo sarebbe piuttosto la traccia dell’assenza interiorizzata dell’oggetto, della madre sufficientemente buona (Winnicott) e amante (Fain) che ha ascoltato il suo bambino; esso apparterebbe all’allucinazione negativa. D’altra parte, mi sembra che il lavoro psichico concernente la salute si radica nell’auto-osservazione ipocondriaca presente in ciascuno di noi come guardiana della vita nella sfera narcisistica”[21]. Così, in relazione al silenzio o al rumore di un corpo sofferente, Cupa propone tre dimensioni dell’ascolto ipocondriaco del proprio corpo. La prima modalità è un sovrainvestimento percettivo analogo a quello del sogno derivante da una ipersensibilità alle eccitazioni interne, ai messaggi provenienti dal copro. Nella seconda variante, l’ipocondria si svela come lo spazio del conflitto ambivalente in cui si attualizzano l’odio nei confronti di un oggetto da cui si dipende e la presa in carico da parte del soggetto stesso della salute dell’organo considerato come malato. Nella terza, il lamento ipocondriaco sostanzializza eventualmente ciò che si è inserito nel corpo del soggetto (come, ad esempio, nel caso di un trapianto), processo che può essere visto come una via d’internalizzazione[22]. Come si può intuire, il riferimento all’ipocondria è pensabile come una modalità di ascolto del silenzio o del rumore del corpo, come una attenzione necessaria, in ciascuno di noi, di poter cogliere eventuali rumori nel silenzio organico abituale, oppure come un iperinvestimento di rumori reali o presunti che fanno sì che quel corpo o quell’organo sia caratterizzabile come uno spazio conflittuale di odio verso l'oggetto e di presa in carico autarchica di se stessi. Ad ogni modo, ed io condivido, “il lavoro dell'ipocondria sarebbe una invenzione della libido narcisistica come guardiana della salute, una espressione delle pulsioni di vita”. Ciò che appare importante è allora l’ipotesi che “un eccesso o una mancanza di cure materne generano una certa fragilità a gestire le proprie sensazioni. In tal caso il lavoro dell’ipocondria non preserva la salute, rende malati psichicamente, o somaticamente”[23]. Insomma, da una parte abbiamo un silenzio corporeo e l’ipocondria, diciamo fisiologica, si istituisce come quell’attività, legata alle pulsioni di vita, necessaria all’ascolto di un eventuale rumore, così come avviene nella dimensione ipersensibile del sogno rivelatore di un malfunzionamento corporeo. Dall’altra, nel caso di una ipocondria patologica, il silenzio è sovrastato da un continuo rumore corporeo, che segnala, in un certo senso, l’iscrizione di una distonia corporea originaria che rinvia a “una disorganizzazione dei tempi e dei ritmi di scambio”[24].
Torniamo alla questione proposta da Green nel suo testo, quella di intendere il movimento analitico come un processo di auto-disorganizzazione provocato dal rumore dello slegamento del processo secondario. Osserva in effetti Green che la tolleranza a tale condizione è di fatto una indicazione di analizzabilità, oppure della necessità tecnica del vis à vis, inteso come supporto necessario in tutti quei processi in cui appare un difetto di tale capacità, oppure è visibile o intuibile il rischio di una disorganizzazione eccessiva. Ad esempio, nel caso di una mia paziente borderline, la necessità del vis à vis, la sua estrema sensibilità al tono di voce, il saltare sulla sedia se c’è un rumore improvviso da qualche parte, segnalano tutta la cautela che occorre mettere nel gestire un continuo debordamento del pulsionale in seduta, a cui essa reagisce seguendo due processualità identificatorie estremamente conflittuali e divergenti fra di loro: il tentativo di estinzione del pulsionale offerto dalla figura materna (una delle parole più frequentemente usate dalla madre era” puttana” allorché diceva che voleva uscire con qualcuno), oppure dell’eccitazione offerta da un padre incestuale e da qui, in seduta, la continua oscillazione fra due piani. Da una parte, il tormentare il proprio corpo per introdurre il dolore al posto del piacere, dall’altra il piacere masochistico che questo stesso procura al suo corpo, in una oscillazione infinita che non dà tregua né a lei né all’analista che diventa un conglomerato tragico, eccitante- glaciale, delle due figure primarie. Ciò che è interessante qui osservare è un doppio movimento: da una parte la paziente in questi anni si è, diciamo, resa disponibile a questo lento e doloroso movimento di scoperta di sé, dei proprio processi identificatori patologici; dall’altra, sottolinea continuamente il dramma dell’eccesso, eccesso di silenzio, eccesso di parola, di presenza, di assenza, di sensazioni, di confusione, di intimità, di distacco nella relazione con me, aspetto che finisce ovviamente per cancellare il setting che di fatto è coperto dal rumore della follia erotica. La stanza d’analisi non è dunque più la stanza “silenziosa” delle cure in attesa eventuale di un rumore proveniente dal corpo come segno di disagio, di qualunque natura esso sia, o di un rumore derivante dall’area di gioco che si crea, ed in cui introdurre più o meno gradatamente una differenza, un accento diverso. Al contrario, è una stanza già troppo carica di urlo e di furore (inutile sottolineare la sua rabbia parossistica e l’altrettanto silenzio che cade una volta allontanato da sé l’oggetto eccitante- pericoloso). Ciò che a questo punto sottolinea del resto anche Green allorché prende in considerazione il vis à vis. “Quest’ultimo verrà considerato come un ancoraggio quando, davanti alla rilevanza dell’auto-disorganizzazione, il setting non basta più a relativizzare il rumore”[25]. Questa osservazione ripropone la questione del rumore relativo, cioè del rapporto fra silenzio e rumore introdotto, fra traduzione e detraduzione, fra tenuta organizzativa e proposta di apertura. In tali casi, ben segnalati dalla necessità del ricorso al vis à vis, il processo auto disorganizzante viaggia a velocità eccessiva, oppure si rende estremante pericoloso per il soggetto stesso. A mio avviso, proprio tali casi pongono il problema estremamente complesso di poter ricadere, preoccupati della correlazione fra eccitazione e soddisfazione derivante dalla cura, nel ruolo di “madre calmante”, estintiva della pulsione, che evidentemente svolge tutt’altra funzione. Come ha osservato A. Maupass, riprendendo le osservazioni di Fain, “Quando è il momento di mettere a dormire il bambino, la madre invia un doppio messaggio. Da un lato, "devi dormire per crescere ed essere sano", un messaggio che va nella direzione dell'autoconservazione e della pulsione di vita, dall'altro, "devi dormire perché io possa liberarmi di te", un messaggio che va nella direzione dell'estinzione e della pulsione di morte. Il grado di intreccio tra pulsione di vita e pulsione di morte porta gli autori [Fain ed altri] a distinguere tra la madre "soddisfacente" e la madre "calmante". La prima culla dolcemente il figlio dopo aver soddisfatto tutti i suoi bisogni, portandolo gradualmente a rilassarsi e ad addormentarsi e favorendo così la realizzazione allucinatoria del desiderio, sotto forma di sogno, mentre la seconda culla il figlio in modo continuo e operativo per precipitarlo nel sonno, perché appena il cullare cessa il bambino ricomincia a piangere. La madre calmante è eccitante, intrappolando il bambino in un ciclo infernale di scarica senza rappresentazione. Il sistema anti-eccitazione della madre fallisce e lo sviluppo dell'autoerotismo viene schiacciato, impedendo al bambino di accedere a qualsiasi tentativo di investimento allucinatorio dell'oggetto assente. In questo caso, il dondolio diventa il guardiano del sonno anziché del sogno”[26]. Il fallimento dell’investimento allucinatorio, nei termini fin qui proposti, realizza a mio avviso proprio l’alterazione radicale della dinamica organizzazione/ disorganizzazione, contribuendo a determinare quella alternativa della condizione standard su cui il lavoro di Green poneva la sua attenzione e che però funge da base di riferimento per esplorare altre occorrenze, altre traversie, altre possibilità esistenziali.
[1] In Propedeutica. La metapsicologia rivisitata, Borla, Roma, 2000
[2] C. e S. Botella, “Conviction et rémemoration” in (a cura di A. Abella e G. Déjussel,) Conviction, suggestion, seduction, Puf, Paris, 2017, pag.153
[3] “Per comprendere bene come una stessa convinzione di realtà possa affermarsi in condizioni psichiche di natura così diversa, occorre rappresentarsi mentalmente un crocevia psichico in cui si intrecciano la convinzione di realtà propria della percezione, la convinzione della realtà psichica propria della rappresentazione e del ricordo e, sullo sfondo, la convinzione di realtà propria del sogno durante il suo svolgimento”, C. e S. Botella, cit., pag. 155
[4] C. e S. Botella, cit. pag.156
[5]S. Freud, OSF 9, pag.41
[6] McDougall J. (1990). A favore di una certa anormalità. Borla, Roma, 1993.
[7] “Questa modalità di riverbero continuo fra psiche, modello della seduta, modello teorico, struttura soggettiva, dialogo interanalitico ecc., definisce la natura poietica dello psichico a cui risponde, o tenta di rispondere, la natura metaforica del pensiero analitico. Metaforicamente centrata, aggiunge immediatamente Green per definirne le caratteristiche, cioè non tanto nel senso di un pensiero che allude ad altro, quanto di un pensiero che pone lo scambio verbale (in rapporto ad un destinatario) in cui vengono assunti differenti versanti della significazione (il polo linguistico e quello non linguistico che interagiscono fra di essi). Questo scarto allude -nel rapporto al non linguistico- all’altra dimensione della metaforizzazione: la forza, il suo radicamento nel corpo, la radice pulsionale del pensiero che determina un’eterogeneità fondamentale tra la forza e il senso e caratterizza l’ancoraggio della metafora, impedendo di tradurla in un elemento a favore di una versione narratologica della psicoanalisi, o di una sua traduzione linguistica, articolata ai concetti di metafora e metonimia”, M. Balsamo, André Green, Feltrinelli, Milano, 2019, pag. 48
[8] A. Green, Propedeutica, Borla, Roma, cit., pag. 330
[9] J. Laplanche, « La psychanalyse : histoire ou archéologie ? », in La révolution copernicienne inachevée, Aubier, Paris, 1992, pag. 413
[10] M. Balsamo, “Storia, archeologia, sopravvivenze”, in J. André-P. Guyomard, Jean Laplanche. Da Lacan à Freud, FrancoAngeli, Milano, pag.87
[11] Ad esempio: “Il passaggio da una forma di scrittura appesantita dal retaggio e dalla tradizione a una forma di scrittura radicalmente nuova, decisamente moderna... L'innocenza degli idioti contrasta con le macchinazioni dei loro concittadini per raggiungere i loro scopi, mentre l'infanzia incorruttibile della loro visione del mondo sembra proteggerli dalle dannazioni della contea. L'idiozia è anche un concentrato delle principali ossessioni di Faulkner: da un lato, è investita dalle figure di una temporalità “decapitata” dal suo futuro, dove il passato riaffiora in contiguità con il presente; dall'altro, è costruita sulla dialettica insolubile che oppone l'individuo singolare alla sua comunità, che vive la differenza come un oltraggio. Infine, l'idiozia è una postura che, nella sua inalterata freschezza, rappresenta il luogo propizio in cui lo sguardo dell'autore riacquista, per così dire, la verginità perduta. La singolarità dello sguardo dell'idiota, che non è predeterminato né pervertito da alcuna legge arbitraria, sta nel fatto che nasce perennemente nel mondo nello stesso momento in cui il mondo rinasce, vergine e nuovo, in ciascuno dei suoi sguardi”, in L’idiotie dans l’œuvre de Faulkner, Presse Sorbonne Nouvelle, Paris, 2018, pag. 293-294
[12] Un elemento, cioè, a metà strada tra il discorso della letteratura e quello della filosofia, simile all’idiota del cogito cartesiano, all'“Anticristo” o al “Dioniso crocifisso” di Nietzsche, al Socrate di Platone. “I personaggi concettuali [...] operano i movimenti che descrivono il piano di immanenza dell'autore e intervengono nella creazione stessa dei suoi concetti. I personaggi concettuali sono gli “eteronimi” del filosofo, e il nome del filosofo è semplicemente lo pseudonimo dei suoi personaggi. Io non sono più me stesso, ma una capacità del pensiero di vedersi e svilupparsi attraverso un piano che mi attraversa in più punti. Il personaggio concettuale non ha nulla a che vedere con una personificazione astratta, un simbolo o un'allegoria, perché vive, insiste”, G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, Einaudi, Torino, 1991, pag 62.
[13] Il Saggiatore, 2009
[14] Idem, pag. 184
[15] Idem, pag. 186
[16] P. Aulagnier, La Biblioteca, Roma-Bari, 2002, pag.55
[17] « Du bruit à l’énigme », Psychothérapie, 2002, vol. 22, nr. 2
[18] Idem, pag. 90
[19] M. Fain, « Hypocondrie », cit. in D. Cupa, « Le silence des organes n’est pas la santé.. », in Revue fr. de psychosomatique, 36, 2009
[20] Idem, pag. 88
[21] Idem pag. 89
[22] Idem, pag. 98
[23] Idem, 99
[24] P. Fédida, « L’hypocondrie de l’expérience du corps », cit. in D. Cupa, cit., pag. 99
[25] Green, 331
[26] A. Maupass, « Comme naissent les fantasmes », in Revue fr. de psychosomatique, 2016, 2, nr. 50, pag.3