Avant-coup e Après-coup

Costruire un ricordo che non c’era di Giuseppe Messina Après-coup su "Adolescenza: un’infanzia da dimenticare" di Paola Carbone

Ciclo "Ricordi d'infanzia" Centro Psicoanalitico di Roma Serata del 18 giugno 2025


Costruire un ricordo che non c’era di Giuseppe Messina Après-coup su "Adolescenza: un’infanzia da dimenticare" di Paola Carbone

 

La serata scientifica con Paola Carbone intitolata “Adolescenza: un’infanzia da dimenticare” fa parte del ciclo “ricordi di infanzia” proposto nel calendario scientifico del nostro centro. Il compito che ho di lavorare sulla posteriorità di questo incontro è alquanto felice perché ripropone nella mia dinamica interiore un après-coup. Non solo per l’evidenza insita nel compito di tornare sull’evento – serata scientifica – ma perché nel farlo, torno anche sull’incontro professionale e personale con Paola Carbone, sulla nostra relazione che ha inizio in Arpad, dove mi sono formato, sulla nostra supervisione didattica dalla quale molto ho imparato. Questo lavoro avverrà per così dire in negativo, cioè non sarà visibile in questa riflessione après-coup sulla serata scientifica, cionondimeno mi sembrava opportuno segnalarlo.

Insomma come sappiamo il lavoro trascrittivo e ritrascrittivo che l’apparato psichico mette in campo sulle tracce, è un lavoro che mette in tensione registrazione, ricostruzione, costruzione e oblio, oltre ovviamente ai diversi livelli dello psichico in cui la traccia può essere trattata. Tutte operazioni legate alla memoria. Per questi motivi anche l’oggetto della serata – la memoria – risuona con l’operazione stessa che sono chiamato a fare: ogni qualvolta c’è questo incontro fra struttura e contenuto credo avvenga qualcosa di significativo.

Insieme a questo tema, per così dire personale, accosterei la genesi relazionale del contributo, almeno per come emerge nella serata: Paola Carbone ci racconta di essere stata sollecitata da Maurizio Balsamo a scrivere qualcosa sull’adolescenza rispetto ai ricordi di infanzia e con ironia avrebbe tentato di rifiutare l’incarico commentando che gli adolescenti non hanno ricordi, così Balsamo avrebbe risposto che allora il tema della relazione sarebbe stato il barrage e così, raccogliendo il frutto dell’incontro, Paola Carbone non poteva che cominciare a partire dal Freudiano ricordo di copertura.

Data per assodata questa base Freudiana comune assistiamo allo sviluppo di un pensiero fine che oscilla tra metapsicologia e poesia, che grazie alla mitologia greca espressa con Mnemosyne, attraversa l’istinto puberale che trova la poltrona già occupata dall’infantile di Laplanche e approda alla riflessione psicoanalitica francese di Gutton e Cahn, ricordando i preziosi contributi italiani di Monniello e Novelletto, spaziando per la plasticità articolare della dinoccolata postura e camminata adolescente. Slegamenti e rilegamenti, questo il lavoro che l’adolescente ha da fare: una tela di Penelope che tesse di notte e disfa di giorno. Il tentativo che farò è quello della posteriorità, qualcosa verrà messo in tensione, qualcosa finirà nell’oblio, qualcosa riemergerà sotto nuova forma.

“Forse l’ho fatto davvero. O forse l’ho raccontato per vantarmi. Però… forse è la stessa cosa.”
(una giovane paziente)

Ci sono frasi che, pronunciate quasi per caso alla fine di una seduta, aprono un varco. Quella che la paziente della dott.ssa Paola Carbone dice con disarmante semplicità — “forse è la stessa cosa” — coglie in modo preciso e vivido ciò che nella teoria psicoanalitica è noto come ricordo di copertura, e che Freud ha esplorato fino al limite del dicibile. In adolescenza, soprattutto, ricordare è un atto ambiguo, pieno di insidie: non si tratta mai soltanto di riportare alla mente, ma piuttosto di costruire qualcosa che possa reggere, che possa farsi fondamento. E per farlo, serve tempo. Tempo interno. È proprio lì, in quella distanza tra l’evento e l’esperienza del suo racconto, che si gioca la Nachträglichkeit: quella posteriorità attiva, propria della psiche, che fa del passato qualcosa che diventa tale solo nel momento in cui lo si può pensare. Ma questa trasformazione, in adolescenza, è tutt’altro che lineare. È segnata da esitazioni, silenzi, zone d’ombra, e a volte da veri e propri blocchi. Bisogna però saper distinguere questi blocchi, ci sono quelli che arrestano i processi evolutivi, quelli che riconosciamo come breakdown, e ci sono quelli di cui osserviamo la natura evolutiva. I primi possono essere il segno di una frattura interna, di un’irruzione dell’infantile che non trova argine, che impedisce di istituire un tempo dell’infanzia come tempo passato, pensabile. In questi casi, ciò che resta non è un’infanzia da ricordare, ma un infantile senza tempo, eterno, circolare, come in quell’immagine del bambino che gioca a dadi che Carbone, con grande finezza, riprende da Eraclito e da Winnicott: un’eternità tragica, in cui l’adolescente — solo anagraficamente tale — si ritira nella sua stanza, chiuso in un tempo che non passa. I secondi blocchi, invece, possono essere evolutivi. Fanno da barrage. Una sorta di diga psichica che permette al soggetto di contenere l’infantile, senza esserne invaso, che permette al soggetto di piegare e mescolare l’infantile al pubertario, una creazione del genio adolescente. È solo grazie al barrage che può iniziare a delinearsi una temporalità: un prima e un poi, una storia narrabile, un ricordo che non pretende verità storica, ma che funziona come appoggio psichico. In questo senso, non c’è infanzia senza adolescenza: senza quel passaggio critico che rende possibile un ritorno trasformato, differito, al tempo che fu.

Ricordare o costruire?

Lo dice Freud — e Paola Carbone ce lo ricorda subito, in apertura del suo testo: i ricordi infantili non emergono, si formano. E si formano tardi. A volte, troppo tardi rispetto a quello che l’Io avrebbe voluto sapere, o anche solo immaginare di sapere. L’adolescente, allora, non sente nostalgia di qualcosa che ha perso. Sente nostalgia di qualcosa che non ha mai posseduto davvero, almeno non in forma pensabile. E così, mentre il corpo cambia, mentre l’identità inizia a riorganizzarsi sotto l’urto del pubertario, l’infanzia si allontana e si avvicina allo stesso tempo: diventa una terra straniera e insieme familiare, una minaccia e una promessa. Succede allora qualcosa di paradossale, ma clinicamente molto frequente: proprio quando il soggetto potrebbe cominciare a ricordare — quando avrebbe bisogno di farlo — comincia invece a difendersi dal ricordo. E non solo dai contenuti traumatici, ma dal gesto stesso del ricordare. Lo vediamo bene nei nostri pazienti adolescenti: ricordare, per loro, è anche dichiarare una perdita. Significa ammettere che ciò che è stato... non è più. Questo è vero anche nel processo del lutto, processo in cui del resto l’adolescente è necessariamente immerso, e non è un caso che il lavoro sul ricordo si intrecci, inevitabilmente, con quello sul dolore della perdita. Lica Costis, nel suo commento da remoto al testo di Paola Carbone, ci offre un’immagine potente. Senza nominare esplicitamente il lavoro del lutto, evoca la radice della parola mneme, che è racchiusa in Mnemosyne, la madre delle Muse. Mneme, ci ricorda Costis, significa anche tomba. In greco antico μνῆμα (mnēma) significa “tomba” o “sepolcro” e deriva dalla stessa radice di μνήμη (mnēmē), cioè “ricordo” o “memoria”. È la pietra posta per ricordare chi non c’è più. In altri termini: dove c’è ricordo, c’è — anche — morte. Ed è forse questo il motivo per cui l’adolescente si ritrae dal ricordare: non tanto perché rimuove, ma perché sa, in un modo tutto suo, che ricordare è anche seppellire. È dare una forma a ciò che si sta perdendo. E questa operazione, se non è sufficientemente sostenuta, può diventare intollerabile.

Mnemosyne e la torsione dell’avventura soggettiva

Nel mito, Mnemosyne, madre delle Muse, non è la dea della memoria fedele. È piuttosto la signora dell’ambivalenza: quella che conosce il potere della parola e sa che il vero e il falso non sono opposti, ma strumenti. Le Muse lo dichiarano senza vergogna: “noi muse sappiamo spacciare storie che hanno aspetto di vero; ma poi, quando vogliamo, sappiamo narrare anche il vero”. Questo non è un inganno, è una strategia della sopravvivenza simbolica. Mnemosyne, allora, non conserva. Crea. E nel farlo, offre al soggetto la possibilità di fondare se stesso su un racconto, anche se quel racconto è parziale, distorto, “coperto”. Il ricordo non è mai la riproduzione di un evento. È una riscrittura, un’opera seconda, che si costruisce su ciò che è stato e su ciò che non è potuto essere. È un mito personale. E se è vero che “ricordare è perdere”, allora è anche vero che inventare un ricordo è un modo per non morire del tutto. Ricordare, infatti, è condannare ciò che è stato all’irrealtà del passato. Scompare — come gli affreschi nel film Roma di Fellini: appena riaffiorano dalla terra, svaniscono sotto lo sguardo. Il ricordo segna una perdita. È la sua firma. E allora — viene da chiedersi — non è forse meglio non ricordare affatto? Mnemosyne torna qui non come archivio, ma come artificio. La memoria si fa gesto creativo, lavoro del negativo (Gutton con Green), ricombinazione poetica. E il ricordo, per l’adolescente, diventa un gesto inventivo, non documentario. La paziente che dubita se abbia davvero fracassato i bicchieri o solo raccontato di farlo, lo dice con chiarezza: “forse è la stessa cosa”. La verità del ricordo sta nel suo effetto soggettivo, non nel suo fondamento storico di cui pure è imbevuto.

Il barrage: un tempo per difendersi

In adolescenza dunque serve un tempo di sospensione. È qui che si inserisce il concetto nodale di Gutton di “pubertario”, cioè un concetto ponte-transito tra infanzia e adolescenza — che ancora non esistono — un tempo in cui l’adolescente, con il suo lavoro va ricordando la sua infanzia e nel ricordarla diventa adolescente perché la mette a morte facendola rivivere. Il barrage è questo: una diga che trattiene, che protegge. Non è un difetto del pensiero, è un gesto necessario per non essere travolti dal passato, per poter accogliere il presente e intravedere un futuro. È in questo senso che l’adolescente tace. Tace sul passato, ma anche su se stesso. La parola si ritira, la lingua familiare diventa insufficiente o rischiosa. Meglio i neologismi, i gerghi, le lingue straniere. Meglio non dire troppo, perché dire equivale a ricordare, e ricordare può significare lasciar morire ciò che ancora si ama. O, forse, ciò che non si è mai davvero avuto. Il barrage è la possibilità che l’infantile che occupa la poltrona Laplanchana si metta al servizio dell’istinto puberale, non per attrarlo nei meandri incestuosi ed incestuali ma per slanciarlo verso i pari, verso il nuovo amore, amore che è caratterizzato dalla grande prestazione psichica di ricordare i genitori senza ricordarli. Il barrage, allora, è un argine, un tempo necessario. Serve a evitare che il nuovo venga invaso dal vecchio, che l’istinto puberale si impregni — troppo presto e troppo profondamente — dei fantasmi infantili: fantasmi dal potere regressivo, seducente, persecutorio.

I modi concreti del barrage: corpo, linguaggio, tempo

Il testo di Paola Carbone si fa, qui, particolarmente preciso e delicato nel dare forma visibile al barrage. Ci mostra che questa barriera non è solo psichica: prende corpo. Si fa gesto, voce, tempo. Il corpo, innanzitutto, cambia. Si smembra e si ri-membra. E qui c’è di nuovo la saggezza greca contro la nostra eredità cartesiana, il corpo in greco antico σῶμα (sôma), oggi usato per “corpo” è il cadavere, il corpo vivo invece sono le “membra” che Carbone ricorda poeticamente con l’Iliade e con Leopardi — Silvia rimembri ancora il tempo di tua vita mortale — . Le articolazioni puberali si sciolgono, si allentano. I gesti diventano altri, come se si aprisse un nuovo dizionario del movimento. Le vecchie identificazioni motorie — quelle che avevano segnato l’infanzia — vengono sospese, quasi dimenticate. È una forma di smemoratezza incarnata, un oblio che passa per i muscoli, per le articolazioni, per la pelle. Una disidentificazione corporea che apre il campo a qualcosa di nuovo, ancora indefinito. Anche il linguaggio si ritrae. L’adolescente tace. Ma non perché non abbia nulla da dire. Tace perché la parola è diventata troppo pericolosa: troppo carica di enigma, forse troppo trasparente, forse troppo esplicita. È sempre potenzialmente oscena. Raccontare è rischioso. Raccontare è ricordare. Meglio allora spostarsi altrove: in un’altra lingua, in un neologismo, in un accento straniero: meraviglioso in tal senso il riferimento che Carbone fa al Freud ginnasiale che scrive in spagnolo “querido amigo”. Si lavora nel silenzio. È una seconda latenza, non meno densa della prima in cui l’adolescente mutacico dosa le parole, è la necessità di segretezza e clandestinità, di chiudere la porta per creare lo spazio privato del sé. Anche il tempo si trasforma. Non è più quello dell’infanzia, ciclico, rassicurante, fatto di ritorni e ripetizioni, del ta-tum del cuore della madre, prototipo di ogni ritmo. Ora è un tempo lineare, pericoloso, carico di rotture. È il tempo del prima e del dopo. Il tempo della scelta, della separazione, della perdita. Il tempo del dolore per ciò che è passato e dell’angoscia per ciò che potrebbe venire. Il limite — che nell’infanzia delimitava il dentro dal fuori, come una linea circolare — diventa qui qualcosa di più radicale: una soglia, un taglio, una tendenza alla fine: un essere-per-la-morte, direbbe Heidegger. E proprio in adolescenza si affaccia il pensiero della possibilità della propria morte: inconcepibile per l’eternità dell’infantile.

Il genio adolescente

Forse l’adolescente non vuole ricordare perché sa — in modo oscuro, profondo, intuitivo — che ricordare è rischioso. È perdere, è trasformare ciò che era eterno in qualcosa di finito. Ma sa anche che non si può diventare soggetto senza raccontarsi una storia. Una storia sua, anche se non è proprio “vera”. Mnemosyne, madre delle Muse, veglia su questo gesto fragile: non pretende fedeltà al fatto, ma fedeltà all’urgenza di dire. E allora sì, forse quella giovane paziente ha ragione: “forse è la stessa cosa”. Forse non conta se hai davvero fracassato i bicchieri, o se l’hai solo raccontato. Conta che hai bisogno di quel gesto, oggi, per sapere chi sei. E in questo lavoro profondo, silenzioso e discontinuo, il soggetto diventa poeta della propria origine: rammenda le membra, ritrova la postura, inventa un idioma, distorce i tempi. Così, grazie al mito, alla finzione e al falso, riesce forse, un giorno, a dire il vero.

E in fondo, non facciamo tutti così?

Ricordiamo per costruirci.

E ci costruiamo per poter, finalmente, ricordare.

Mnemosyne sorride: sa che è andata così anche per noi.

Note sugli interventi e la discussione finale

Lica Costis oltre a quanto già espresso nel corpo del testo segnala l’importanza del lavoro con i genitori in quanto ribadisce il primato dell’altro Laplanchano sul quale fondamentalmente Carbone concorda e anzi, ricorda di lavorare da anni anche in “psicoterapia senza il paziente” di cui è docente Arpad.


Giuffrida fa un intervento pennellato nel quale commenta che molte delle proposte di Paola Carbone si associano bene con quello che va pensando da un po’ ed in particolare l’idea che il barrage sia provocato da una sorta di una cesura della dinamica del ricordo, l’allucinatorio conserva il ricordo d’infanzia, ma a cosa servono questi ricordi di infanzia? A creare una struttura matriciale che accompagnerà per tutta la vita dell’individuo, che le prime esperienze con la madre, la ricorsività (generata citando Green dalla discontinuità), la presenza, l’assenza, il ritorno, l’allucinazione negativa. Il barrage come disarticolazione di questo meccanismo in cui per far sopravvivere questo meccanismo dobbiamo cancellare i fatti.

 

Un’osservazione finale, quasi a margine, merita l’intervento conclusivo di Balsamo nel quale ricorda le mani negative delle grotte di Lascaux: lo fa per ricordare che il processo negativo è un processo che ha origine all’albore dell’umanità, e per ricordarci quello che già Freud indicava sul testo sulla negazione, vale a dire che ogni affermazione è accompagnata da una negazione, per ogni sì esiste un no, e allora in adolescenza questo assume un’enorme pregnanza, il no dell’infans che scuote la testa prima e sputa poi, diventa il no dell’adolescente contro l’adulto, per negativizzare l’infantile e renderlo infanzia e diventare finalmente adolescente.

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