Non suscitate un generale in voi. Micropolitica del fascismo
Nelle paludi torbide della Florida, in un’area ancestrale che appartiene da secoli al popolo Creek Seminole — l’unica nazione nativa a non essere mai stata sconfitta dal governo statunitense — è stata costruita una nuova prigione per migranti. Isolata tra mangrovie e alligatori, sorvegliata da droni e vigilantes, l’hanno già ribattezzata Alligator Alcatraz: un nome che dice tutto, perché fonde l’animalità dello spazio con l’architettura della punizione. Qui verranno detenuti fino a cinquemila persone, prive di documenti, in attesa di una deportazione spesso rimandata, a volte solo promessa. Ma più che trattenere, la struttura serve a esibire: un deterrente che comunica con forza che attraversare un confine può voler dire perdere tutto.
Le proteste dei gruppi indigeni e ambientalisti si sono levate subito. Non solo per la violazione territoriale, ma per l’umiliazione simbolica: erigere un carcere su quella terra significa riscrivere con violenza la memoria di una resistenza mai domata, cancellare la sovranità di chi ha saputo opporsi al colonialismo. Mentre il governo statunitense ribadisce che anche il territorio può essere reclutato nella funzione carceraria. È la palude stessa a farsi custode, il paesaggio a trasformarsi in ostaggio.
Ma la questione più profonda riguarda il modo in cui il migrante viene oggi sistematicamente criminalizzato: non per ciò che fa, ma per ciò che è. Il migrante non è un soggetto politico, ma una figura retorica negativa, un’ipotesi di colpa, un’interruzione semantica nel racconto della Nazione. Non conta se fugge da guerre o da deserti, se cerca lavoro o se è nato altrove: la sua sola esistenza è trattata come una trasgressione. La prigione serve a confermare questa narrazione, a ribadire che l’identità è un recinto, la legge un confine, l’Altro un rischio. Ma ciò che inquieta più profondamente è semplicemente il fatto che ciò sia possibile oggi, che questa logica non sembra solo imposta dall’alto: sembra piuttosto rispondere ad un desiderio sempre più diffuso.
Sembra non ci sia veramente fine alla vergogna, alla violenza sulle soggettività più deboli e marginali, imprigionate, sterminate nelle loro terre, trasformate in vittime rituali di un desiderio collettivo d’ordine che, per esistere, ha bisogno di corpi da escludere e di confini da blindare.
È qui che si apre una questione che taglia trasversalmente la politica, la clinica e la filosofia: perché il desiderio può farsi fascista? Perché le masse, in certi momenti storici, invocano ciò che le opprime? Perché, di fronte all’incertezza, preferiscono la minaccia del comando alla libertà del divenire? Perché non si oppongono all’autorità che le opprime, ma la invocano? Perché, dinanzi all’angoscia del molteplice, dell’ibrido, preferiscono l’ordine, la divisa, il recinto?
La risposta più celebre, e forse più rassicurante, la offre Wilhelm Reich nella sua Psicologia di massa del fascismo: il popolo, secondo Reich, desidera il fascismo perché il proprio desiderio è stato represso. Recluso, deviato, rimosso da un’educazione autoritaria, da una sessualità bloccata, da una famiglia patriarcale che produce soggetti incapaci di desiderare liberamente. Il desiderio autentico, afferma Reich, è liberatorio, egualitario, collettivo. È la sua rimozione a rendere il soggetto permeabile alla propaganda, docile al potere, affamato di padri e di leggi.
Guattari, insieme a Deleuze, va otre questa lettura. L’errore di Reich, diranno, è duplice: da un lato idealizza il desiderio come forza naturale buona, da restaurare; dall’altro immagina il potere come qualcosa che opprime dall’esterno. Al contrario, per Guattari il fascismo non è un nemico esterno, ma una possibilità interna al desiderio stesso. Il desiderio produce realtà — non è né sano né malato, né autentico né falso, ma plastico e ambivalente, attraversato da macchine sociali, semiotiche, affettive. Il desiderio non è da liberare: è da cartografare. Perché può divenire rivoluzionario, certo, ma anche gerarchico, paranoico e identitario. E quando il desiderio smette di connettere e comincia a classificare, a delimitare, a sottomettere, allora si è già installato “un generale”. E nessuno lo ha imposto: è emerso dal desiderio stesso, come comando.
È per questo che in Mille Piani si legge quell’imperativo filosofico e clinico: “non suscitate un generale in voi”. Non è solo una provocazione, ma uno strano tipo di diagnosi in forma di slogan: dentro ogni soggettività, ogni corpo, ogni relazione, ogni algoritmo, ogni discorso, ogni lettera, può emergere la forma del generale — quell’agente interiore che vuole sapere, decidere, comandare. Che vuole ridurre la molteplicità a uno, il divenire alla norma, il desiderio alla legge. Ed è questa forma che oggi torna, non con le camicie nere, ma con le interfacce, i protocolli, le narrazioni semplificanti, i “noi” e i “loro” brandizzati, i discorsi sulla sicurezza, sulla decenza e sulla verità. Torna sotto forma di algoritmo, di moralismo, di ironia virale. I microfascismi non si annunciano in marcia. Siamo distanti da quel Woody Allen che ironicamente diceva che quando ascolta Wagner è assalito da un irrefrenabile desiderio di invadere la Polonia. Il microfascismo in questione si traveste da buon senso: “bisogna pur mettere ordine”, “ci sono regole da rispettare”, “l’identità va difesa”.
Toni Negri ha scritto che non esiste desiderio che non sia anche produzione, e che il potere, prima ancora di essere comando, è organizzazione della produttività sociale. Ma se è così, allora la posta in gioco è altissima: perché ogni desiderio, ogni affetto, ogni scena collettiva diventa immediatamente campo di battaglia. Non ci sono margini neutri. Non esiste fuori. E l’antifascismo non può più essere solo reazione morale: deve farsi ontologia mobile, gesto che impedisce la cattura del vivente nella griglia dell’identico.
Il fascismo, in questa prospettiva, non è quindi più un fatto politico esterno, è una configurazione desiderante. Ed è per questo che non basta combatterlo a colpi di leggi, manifestazioni o post indignati. Occorre una clinica del desiderio. Una micro-politica. ovvero una pratica di attenzione alle modalità attraverso cui il potere si infiltra nei dettagli, nei gesti, nelle emozioni quotidiane, nei linguaggi minimi, nei modi di stare con gli altri, persino nel modo in cui si dice “noi”. La micropolitica è l’analisi di ciò che accade nel piccolo, dove si formano le soglie che poi diventano istituzioni: è lì che il fascismo si annuncia, ben prima delle leggi e dei proclami.
Il fascismo è una soglia sempre possibile: la soglia in cui il desiderio smette di moltiplicarsi e chiede unità, senso e purezza. Dove il ragazzino migrante non è più un volto, ma un rischio da contenere in un modulo prefabbricato con grate alle finestre e aria condizionata.
In questo senso, nessuna soggettività è salva in partenza. Nessuna analisi, nessun sapere, nessuna lotta e nessuna istituzione può considerarsi immune. Il fascismo può filtrare ovunque: nel tono con cui si impone una norma, nella forma con cui si costruisce un’interpretazione, nella postura con cui si reclama purezza teorica o coerenza politica. Non si tratta di smascherare il nemico, ma di osservare dove in noi si organizza il comando. Dove il pensiero si fa giudizio, la relazione si fa appartenenza, la passione si fa regola. È lì che il generale prende forma.
Il gesto più radicale, allora, non è resistere al fascismo come se fosse altro da noi, ma evitare che il nostro stesso desiderio lo renda possibile. Perché il desiderio, se non vuole farsi carceriere, deve restare in contatto con l’indecidibile, il discontinuo, l’eccentrico. Deve preferire il divenire all’identità, il concatenamento alla struttura, la mutazione alla norma. Non per anarchia, ma per fedeltà alla vita.